Avraham Burg: dal trauma alla fiducia
Qual era secondo lei l'obiettivo politico dell'operazione Piombo Fuso. Quale scopo si era prefisso il governo con l'attacco a Hamas?
Come ex attivista di Peace Now, non ho mai considerato la guerra come un'opzione efficace, se non in circostanze di emergenza. Di solito non giudico gli effetti o i risultati di una guerra durante la guerra stessa. Ciò che mi chiedo è una cosa molto semplice: se questo conflitto condurrà a nuove animosità, allora è stato un fallimento. Se porterà alla ripresa dei negoziati, alla riapertura del dialogo, a una nuova road map per la pace, allora è stata necessaria. Faccio un esempio: la guerra con l'Egitto del 1973 è stata devastante, ma è stata una necessità. Ci ha condotti al negoziato e alla pace con l'Egitto.L'impressione esterna è quella di un paese che negli ultimi anni ha agito solo sul piano militare, senza una precisa strategia politica: come se ritenesse che la sola dimostrazione di forza fosse sufficiente a risolvere i problemi. Ma gli ultimi dieci-quindici anni non hanno insegnato nulla?E' quasi impossibile rispondere solo da un punto di vista israeliano. La situazione coinvolge il Medio Oriente e tutto il mondo. La questione mediorentale, dagli anni Ottanta e Novanta, si è avvitata in una spirale di violenza, è entrata in un vicolo cieco. Israele è solo una parte del problema. La domanda è: se in questo puzzle, noi, i palestinesi, ma soprattutto l'amministrazione Usa, riusciamo a trovare un punto d'incontro, allora sarà bene seguire un approccio riconciliatorio. Tale approccio sarà dettato soprattutto dal nuovo corso della politica di Obama e dovrà prevedere l'inclusione al tavolo negoziale di tutti gli attori: la comunità internazionale, la comunità regionale e noi israeliani.Tra le vittime dell'operazione Piombo Fuso rischia di esserci anche la volontà di pace di una parte degli israeliani?
Non c'è dubbio che gli israeliani desiderino la pace. Ma questa non è stata vittima dell'operazione 'Piombo Fuso'. Paradossalmente, coloro che si sono presi la responsabilità dell'opzione militare rispondevano a un desiderio di pace. Di cessazione delle ostilità da parte di Hamas. Da parte mia, io non abbandono mai la speranza che un giorno vi sarà pace.Nel settembre 2008 Olmert ha denunciato, in un'intervista a Yedioth Ahronoth, quarant'anni di cecità: sua e di Israele. Disse che era arrivato il momento in cui lo Stato doveva scegliere se guerreggiare in permanenza, o cercare la pace coi vicini. Parlò dell'automatico e quasi paranoico ricorso all'opzione militare e invitò le gerarchie militari a ritrovare il valore della pace, perseguibile a un'unica condizione: liquidare le colonie, restituire "quasi tutti se non tutti i territori", dando ai palestinesi "l'equivalente di quel che Israele terrà per sé". Cosa è cambiato in pochi mesi?Credo di non avere una risposta. Sono un ex politico, forse per capire la mentalità di Olmert dovrei essere un ex psicologo. Tuttavia, preferisco le sue dichiarazioni riconciliatorie che prevedono la necessità di rimuovere gli insediamenti e di superare la violenza e il radicalismo religioso di Hamas. Questo preferisco, alla sua politica di guerra. Lei qualche tempo fa scriveva: "Vi sono concrete probabilità che la nostra sia l'ultima generazione sionista. In Israele potrà anche esservi uno Stato ebraico, ma sarà di un genere diverso, strano e spiacevole. C'è poco tempo. Occorre una visione nuova di una società giusta e la volontà politica di attuarla". Oggi c'è ancora tempo per questo?
Ciò che accade oggi in Israele viene letto da voi attraverso la televisione e internet, mentre io ascolto le voci quotidiane della gente di strada. Molti israeliani non considerano la guerra come un'opzione privilegiata. Non sappiamo quale sarà il risultato delle prossime elezioni, nè il futuro del processo di pace, ma sappiamo che c'è una significativa massa critica nella società israeliana che è realmente decisa a trovare soluzioni per evitare una nuova guerra.
Israele ha dimostrato anche in questo caso di non avere scrupoli nell'ignorare i moniti, i consigli, anche solo i miti suggerimenti della comunità internazionale. Ma questa ha un modo per farsi ascoltare dal governo di Tel Aviv?
Non credo sia un'interpretazione corretta. Nella maggioranza dei casi Israele ha avuto un dialogo intenso e conversazioni serrate con la comunità internazionale, specialmente con l'ala contraria al fondamentalismo islamico. In questo caso, è vero, non abbiamo ascoltato. Questo perchè la maggioranza degli israeliani ritiene che la comunità internazionale abbia pregiudizi e non sia oggettiva. Da qui la chiusura nei suoi confronti.Nel suo ultimo libro Sconfiggere Hitler edito da Neri Pozza, lei scrive che la cultura, o meglio il culto della Shoah, ha modificato la cultura politica dello Stato israeliano ed è diventato, mi perdoni la sintesi, la pubblica giustificazione della durezza con cui Israele amministra i territori occupati.
Nel mio libro sostengo che il problema di Israele è che le sue azioni sono guidate dal traumatico ricordo della Shoah, e che sia la società civile che quella politica devono progressivamente sforzarsi a passare dal trauma alla fiducia, perchè se il trauma rimane la forza che guida le proprie azioni, alla fine si tende a preferire un'approccio aggressivo anzichè uno riconciliatorio. Ciò è deleterio per noi e per i nostri vicini. Credo che la reazione a volte spropositata della società israeliana provenga da qualcosa che sta in profondità, nella psiche stessa di questo popolo, che ha le sue radici nel trauma dell'Olocausto e vuole prevenire un nuovo trauma. Io intendo persuadere gli israeliani che non tutte le minacce, non tutti gli ostacoli, non tutti i pericoli sono letali, assoluti e definitivi, ma che alcuni di questi sono del tutto normali e lo Stato deve affrontarli senza ricorrere sempre all'uso della forza.Dal trauma alla fiducia
Non credo sia un'interpretazione corretta. Nella maggioranza dei casi Israele ha avuto un dialogo intenso e conversazioni serrate con la comunità internazionale, specialmente con l'ala contraria al fondamentalismo islamico. In questo caso, è vero, non abbiamo ascoltato. Questo perchè la maggioranza degli israeliani ritiene che la comunità internazionale abbia pregiudizi e non sia oggettiva. Da qui la chiusura nei suoi confronti.Nel suo ultimo libro Sconfiggere Hitler edito da Neri Pozza, lei scrive che la cultura, o meglio il culto della Shoah, ha modificato la cultura politica dello Stato israeliano ed è diventato, mi perdoni la sintesi, la pubblica giustificazione della durezza con cui Israele amministra i territori occupati.
Nel mio libro sostengo che il problema di Israele è che le sue azioni sono guidate dal traumatico ricordo della Shoah, e che sia la società civile che quella politica devono progressivamente sforzarsi a passare dal trauma alla fiducia, perchè se il trauma rimane la forza che guida le proprie azioni, alla fine si tende a preferire un'approccio aggressivo anzichè uno riconciliatorio. Ciò è deleterio per noi e per i nostri vicini. Credo che la reazione a volte spropositata della società israeliana provenga da qualcosa che sta in profondità, nella psiche stessa di questo popolo, che ha le sue radici nel trauma dell'Olocausto e vuole prevenire un nuovo trauma. Io intendo persuadere gli israeliani che non tutte le minacce, non tutti gli ostacoli, non tutti i pericoli sono letali, assoluti e definitivi, ma che alcuni di questi sono del tutto normali e lo Stato deve affrontarli senza ricorrere sempre all'uso della forza.Dal trauma alla fiducia
Commento: è ora di un'alleanza trasversale con le anime vive della società israeliana ,del mondo ebraico , occidentale e arabo ,..lo sguardo della moglie di Lot, sempre rivolto al passato,produrrà solo statue di sale e Parole senza vita. Le ceneri di Gaza, spero, ricadano sulla circoncisione di Amir e sulla sua corte dei miracoli
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