Intervista a Mustafa Barghouti: i ghetti palestinesi




Un Muro,voluto da Israele, che penetra nei territori occupati di Cisgiordania. Spezza villaggi. Divide famiglie. Distrugge terreni agricoli. E crea enclavi (aree in cui la gente sarà totalmente circondata dal muro) entro le quali vivono già oggi oltre 150mila palestinesi.

La «barriera di difesa» voluta da Israele per far fronte agli attacchi terroristici ha stravolto i connotati della West Bank, delineando sul campo, e in modo unilaterale, i confini futuri dello Stato d’Israele. Il premier israeliano Olmert ha deciso di modificare il tracciato della «barriera difensiva» in costruzione in Cisgiordania, al fine di inglobare due insediamenti e isolare due villaggi palestinesi che contano 20mila abitanti. A rivelarlo è il quotidiano Haaretz, secondo cui all’altezza della città israeliana di Modiin Ilit il tracciato del «Muro» sarà spostato di 5 km oltre la linea verde che segnò il confine tra Israele e Cisgiordania nel 1967, a seguito della Guerra dei Sei giorni. In questo modo gli insediamenti di Nili e Naaleh (nei quali vivono circa 1.500 coloni) saranno riuniti al territorio israeliano, mentre un villaggio palestinese di 17mila abitanti sarà circondato da un lato dal muro e dall’altro da un fossato; un altro di circa 3mila abitanti sarà circondato dalla barriera su tre lati. Ciò comporterà un prolungamento della barriera di circa 12 km. Nel nuovo tracciato del «Muro» sono già stati incorporate le città-insediamento di Ariel, Beit Arieh-Elkana, Gush-Etzion-Efrat e Yatir-Sussia. «Il premier ha chiesto che venga studiata la questione e che sia il governo a discutere una volta che saranno conclusi gli esami necessari», puntualizza l’ufficio del premier. Restano i ghetti, prodotto di un tracciato del «Muro» che chiude in una stretta numerosi territori chiave palestinesi, e ne spezza numerosi altri. Questa parte del muro costa al governo israeliano oltre un milione di dollari a chilometro, ed è fortificata da pareti di cemento armato di otto metri, da torri di controllo ogni 300 metri, da trincee profonde due metri, da recinzioni di filo spinato e strade di aggiramento. La costruzione del muro attorno a Gerusalemme est è, se è possibile, ancora più devastante per le aspirazioni ad uno Stato palestinese. Mentre al nord il muro non si spinge mai più di 8 km all’interno delle terre, a Gerusalemme penetra molto più in profondità. Una volta completato il muro, dal nord della Cisgiordania a Gerusalemme, lo Stato ebraico si sarà annesso il 7% della West Bank, tra cui 41 colonie israeliane e circa 310mila palestinesi, 80mila dei quali non hanno ufficialmente diritto di residenza in Israele e pertanto non hanno diritto di viaggiare o dei servizi sociali israeliani. Questi 80mila palestinesi vivono in una situazione di estrema vulnerabilità e probabilmente saranno costretti a emigrare. Secondo stime recenti, la costruzione del muro ha già sradicato 106.320 alberi di ulivo e limoni palestinesi; demolito 320 Km2 di serre e 39 Km di condutture per l’irrigazione. Il muro sorge adesso su 17mila dunums (1 dunum=1000m2) di terra confiscata, e il progetto prevede la confisca di altri 120-150mila dunum. Almeno 116 città e villaggi palestinesi sono stati, fino a questo momento, danneggiati dal muro che li ha privati della loro terra e delle proprie risorse. Dei 47 villaggi e città palestinesi che si trovano lungo il percorso della prima fase di costruzione del muro, 21 sono stati separati da più della metà della loro terra. Il muro ha isolato 39 fonti d’acqua sotterranee e più di 200 cisterne dalle comunità, e altri 16 pozzi sono a rischio demolizione perché situati nella zona «cuscinetto». Il muro renderà difficile l’accesso agli ospedali dei palestinesi residenti in villaggi isolati, specialmente a Tulkarem, Qalqilya, e Gerusalemme Est; 71 cliniche di assistenza sanitaria di base resteranno isolate dal resto della Cisgiordania. Non soltanto il muro non segue al «Green Line» del 1967, ma esso si ripiega su se stesso creando 22 enclavi. Qalqilya, città a nord-ovest della Cisgiordania, è il maggior comune palestinese. Con una popolazione di più di 42mila abitanti, essa è anche il centro di riferimento per 32 villaggi vicini, cioè altre 90mila persone fanno affidamento sulla città per i servizi sanitari e per l’istruzione. La città è stata completamente circondata da una barriera lunga 14 Km. La confisca della terra, la distruzione e le dure restrizioni alla libertà di movimento hanno già comportato la perdita di almeno 9.500 posti di lavoro. Le chiusure israeliane e il muro intorno le comunità del distretto di Tulkarem impediscono ai residenti di viaggiare per motivi di lavoro. Ciò ha causato un tasso di disoccupazione che dal 18% del 2000, ha raggiunto il 78% nella primavera del 2006. Al 31 ottobre 2006 , 427 Km di «Muro» sono stati edificati e resi operativi: il 58% del totale. Laddove attraversa aree urbane - il 10% del percorso, ma con a più alta densità demografica - il «Muro» è composto da blocchi di cemento armato alti dai 6 ai 9 metri. Nelle aree rurali, invece il «Muro» assume la forma di una barriera larga dai 50 agli 80 metri e composta da vari elementi: filo spinato, trincea, rete metallica, sensori di movimento, pista di pattugliamento, e striscia di sabbia per il rilevamento di impronte. Una volta completato , il «Muro» circonderà circa il 57% della Cisgiordania. E così le attuali enclavi danno corpo a una convinzione che si fa sempre più strada sotto l’ombra del Muro: che l’ipotetico "Stato" di Palestina altro non sia che una riedizione dei «bantustan» sudafricani. A rinforzare la disinformazione della cronaca u.d.g. aggiunge un'intervista a Mustafa Barghouti, esponente della "leadership laica e progressista palestinese" (da molti indicato, in realtà, come vicino ad Hamas).Barghouti presenta la politica di Israele come lo scandalo del nostro tempo: la continuazione dell’ultima colonizzazione, molto particolare, strana, deformata, con due elementi che la caratterizzano: la più lunga occupazione militare e la creazione della peggiore forma di apartheid. Avere cura della Palestina vuol dire che l’umanità dovrebbe avere cura di se stessa per non permettere l’accadere di cose così gravi».Cita il recente libello antisraeliano di Jimmy Carter, difende il governo di Hamas, nega recisamente che quello tra israeliani e palestinesi sia uno scontro tra opposte ragioni e che verta su un territorio: si tratta invece di uno scontro tra "oppressi " e "oppressori". Ecco il testo:«Nel ventunesimo secolo gli uomini non dovrebbero tollerare la continuazione dell’ultima colonizzazione, molto particolare, strana, deformata, con due elementi che la caratterizzano: la più lunga occupazione militare e la creazione della peggiore forma di apartheid. Avere cura della Palestina vuol dire che l’umanità dovrebbe avere cura di se stessa per non permettere l’accadere di cose così gravi». A denunciarlo è uno degli esponenti più autorevoli della leadership laica e progressista palestinese: Mustafa Barghuti. Eletto nel Parlamento palestinese, Barghuti è stato ieri sera protagonista, assieme al sindaco di Venezia Massimo Cacciari, di un vivace e partecipato incontro organizzato dalla Casa della Cultura di Milano, dal titolo «Avere a cuore la Palestina».Dottor Barghuti, come «avere cura della Palestina» oggi?«Battendosi contro la più lunga occupazione militare e la peggior forma di apartheid oggi esistente al mondo. Lo stesso Jimmy Carter ha affermato che l’apartheid in atto in Palestina è peggiore di quella esistente a suo tempo in Sud Africa. È la prima volta che una intera nazione è imprigionata. Certo, ghetti ce ne sono stati, come ad esempio in Polonia e in tanti altri Paesi, ma mai nella storia c’è stata una situazione in cui tutta una popolazione è stata ingabbiata in tanti piccoli ghetti. La vittima è oppressa e nel contempo la si incolpa di essere oppressore (come accade per lo stupro di una donna, di cui la si incolpa per come era vestita, per come muoveva le mani.... Si punta l’indice accusatore sul comportamento ma non sul suo stupratore). Dunque "avere cura" della Palestina vuol dire che l’umanità intera dovrebbe impegnarsi per porre fine a tutto questo, e aggiungo che anche se non fossi palestinese direi la stessa cosa. Attenzione: non ci sono due fazioni che combattono per lo stesso pezzo di terra, ma un oppressore e un oppresso, come in Algeria ai tempi dell’occupazione francese».Dopo giorni di scontri e di morti tra Hamas e al-Fatah, a Gaza regge una fragile tregua. C’è il rischio di una deriva sanguinosa?«Sì, c’è un rischio, ma non è guerra civile. Questa è la ragione per cui mi sono tanto impegnato per la realizzazione di un governo di unità nazionale, e un risultato importante lo possiamo rivendicare: siamo riusciti a creare una struttura democratica, e si noti che siamo l’unico Paese arabo che ci sia riuscito. Il processo non è stato portato a compimento ma le basi sono state gettate e la Costituzione di un sistema democratico è una bellissima garanzia per la pace. Solo se c’è accordo fra due entità democratiche si può agire per una pace efficace».Resta la forza di Hamas.«Il risultato elettorale di Hamas è il frutto della corruzione della vecchia classe dirigente, del fallimento del processo di pace e anche di un sistema elettorale che non funziona: Hamas ha ottenuto il 44% dei voti e il 60% dei seggi. Il successo di Hamas non significa una deriva fondamentalista della Palestina. Lo stesso elettorato aveva dato a me il 30% dei voti nelle elezioni presidenziali, e di me tutto si può dire tranne che sia un fondamentalista...Indubbiamente nelle elezioni politiche c’è stata una polarizzazione tra Hamas e al-Fatah. Penso che Hamas possa essere battuto ma democraticamente, non combattuto militarmente. Israele e Stati Uniti hanno fatto pressioni per combattere militarmente Hamas. In Hamas vi sono estremisti, come vi sono in al-Fatah. Vanno contrastati politicamente, non esiste una scorciatoia militare per risolvere le controversie. Israele spinge perché si facciano al guerra per poter sostenere che i palestinesi non possono avere uno Stato indipendente. La stragrande maggioranza dei palestinesi rifiuta questa guerra. Quindi o si rilancia la strada del governo di unità nazionale oppure ci si accordi per risolvere le differenze in modo democratico». .

«Nel ventunesimo secolo gli uomini non dovrebbero tollerare la continuazione dell’ultima colonizzazione, molto particolare, strana, deformata, con due elementi che la caratterizzano: la più lunga occupazione militare e la creazione della peggiore forma di apartheid. Avere cura della Palestina vuol dire che l’umanità dovrebbe avere cura di se stessa per non permettere l’accadere di cose così gravi». A denunciarlo è uno degli esponenti più autorevoli della leadership laica e progressista palestinese: Mustafa Barghuti. Eletto nel Parlamento palestinese, Barghuti è stato ieri sera protagonista, assieme al sindaco di Venezia Massimo Cacciari, di un vivace e partecipato incontro organizzato dalla Casa della Cultura di Milano, dal titolo «Avere a cuore la Palestina».Dottor Barghuti, come «avere cura della Palestina» oggi?«Battendosi contro la più lunga occupazione militare e la peggior forma di apartheid oggi esistente al mondo. Lo stesso Jimmy Carter ha affermato che l’apartheid in atto in Palestina è peggiore di quella esistente a suo tempo in Sud Africa. È la prima volta che una intera nazione è imprigionata. Certo, ghetti ce ne sono stati, come ad esempio in Polonia e in tanti altri Paesi, ma mai nella storia c’è stata una situazione in cui tutta una popolazione è stata ingabbiata in tanti piccoli ghetti. La vittima è oppressa e nel contempo la si incolpa di essere oppressore (come accade per lo stupro di una donna, di cui la si incolpa per come era vestita, per come muoveva le mani.... Si punta l’indice accusatore sul comportamento ma non sul suo stupratore). Dunque "avere cura" della Palestina vuol dire che l’umanità intera dovrebbe impegnarsi per porre fine a tutto questo, e aggiungo che anche se non fossi palestinese direi la stessa cosa. Attenzione: non ci sono due fazioni che combattono per lo stesso pezzo di terra, ma un oppressore e un oppresso, come in Algeria ai tempi dell’occupazione francese».Dopo giorni di scontri e di morti tra Hamas e al-Fatah, a Gaza regge una fragile tregua. C’è il rischio di una deriva sanguinosa?«Sì, c’è un rischio, ma non è guerra civile. Questa è la ragione per cui mi sono tanto impegnato per la realizzazione di un governo di unità nazionale, e un risultato importante lo possiamo rivendicare: siamo riusciti a creare una struttura democratica, e si noti che siamo l’unico Paese arabo che ci sia riuscito. Il processo non è stato portato a compimento ma le basi sono state gettate e la Costituzione di un sistema democratico è una bellissima garanzia per la pace. Solo se c’è accordo fra due entità democratiche si può agire per una pace efficace».Resta la forza di Hamas.«Il risultato elettorale di Hamas è il frutto della corruzione della vecchia classe dirigente, del fallimento del processo di pace e anche di un sistema elettorale che non funziona: Hamas ha ottenuto il 44% dei voti e il 60% dei seggi. Il successo di Hamas non significa una deriva fondamentalista della Palestina. Lo stesso elettorato aveva dato a me il 30% dei voti nelle elezioni presidenziali, e di me tutto si può dire tranne che sia un fondamentalista...Indubbiamente nelle elezioni politiche c’è stata una polarizzazione tra Hamas e al-Fatah. Penso che Hamas possa essere battuto ma democraticamente, non combattuto militarmente. Israele e Stati Uniti hanno fatto pressioni per combattere militarmente Hamas. In Hamas vi sono estremisti, come vi sono in al-Fatah. Vanno contrastati politicamente, non esiste una scorciatoia militare per risolvere le controversie. Israele spinge perché si facciano al guerra per poter sostenere che i palestinesi non possono avere uno Stato indipendente. La stragrande maggioranza dei palestinesi rifiuta questa guerra. Quindi o si rilancia la strada del governo di unità nazionale oppure ci si accordi per risolvere le differenze in modo democratico». .

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