Don Nagle è nato in una famiglia ebrea californiana ora vive in palestina:il Natale del prete che sfida i muri


vest hanno il mare, che in alcuni punti non dista più di 20 chilometri: ne possono quasi sentire l’odore, ma il Muro impedisce di andare oltre. A Sud hanno Gerusalemme e Betlemme, luoghi simbolo della loro fede: almeno a Natale vorrebbero visitarli, ma i permessi sono difficili da ottenere e la barriera è sempre là, insieme a decine di checkpoint da attraversare. Capita che una famiglia di 10 persone riceva i pass per la madre e gli otto figli, ma il padre figura su una qualche «lista nera» e sfuma per tutti il Natale in visita ai parenti. Per la piccola comunità dei cristiani di Ramallah, Nablus e altre località della Cisgiordania, la festa più attesa arriva anche stavolta «impacchettata» dai muri che segnano la vita nei Territori. Ogni anno l’avvicinarsi del 25 dicembre interroga i 175 mila cristiani che vivono in Israele e nelle zone palestinesi: l’1,5% della popolazione, tra sei milioni di ebrei e 3,5 milioni di musulmani. La tentazione è unirsi alle decine di migliaia che se ne sono andati«Vengono da me e mi chiedono: “Per i musulmani sono un cristiano; per gli ebrei sono un arabo. Cosa posso fare?”». Don Vincent Nagle è la persona giusta per tentare una risposta. Nato in una famiglia di ebrei californiani, affascinato dall’Islam al punto da dedicare anni di studi ad approfondirlo, girando paesi arabi e imparando lingua e culture. Il cammino lo ha poi portato ad approdi imprevisti: la conversione al cattolicesimo, poi il sacerdozio come missionario nella Fraternità San Carlo. Ora è l’uomo-chiave del Patriarcato di Gerusalemme per tenere i rapporti tra le piccole comunità cristiane nei Territori. Una missione sempre in auto, passando da un checkpoint all’altro, da una barriera alla successiva. I suoi giudizi sul Natale in Terrasanta non sono diplomatici: «Israele vuol convincere il mondo di essere a favore della soluzione dei due Stati - dice - ma basta guardarsi intorno per capire che non è così. Israele sta prendendo tutto. Le barriere non sono per la sicurezza, ma per delimitare il territorio: già l’11% della terra migliore è stata portata via ai palestinesi. E gli insediamenti crescono, nonostante la moratoria. I lavori su 3000 abitazioni già in costruzione vanno avanti, insieme a quelli di grandi strade di comunicazione tra le colonie che dividono interi villaggi».La vita della millenaria comunità cristiana è sempre più dura. In molti si arrendono. Dal Patriarcato dipendono ora anche tre parrocchie in altre parti del mondo, una proprio a San Francisco, la città di don Nagle. «Ha più parrocchiani palestinesi di quanti ne abbiamo qui», dice. Ma a colpire il sacerdote sono coloro che, nonostante tutto, non se ne vanno. «Penso al caso di Ibrahim - racconta - un greco ortodosso che ha sposato una cattolica e ora frequenta la nostra chiesa. Un tassista che vive in un monolocale seminterrato, con la moglie e cinque figli. Come molti nella comunità cristiana, in questi anni ha visto crollare il suo status sociale, anche per il muro. Gli ho chiesto perché non emigra negli Usa. Mi ha risposto che non se ne andrà, perché l’unica eredità che può lasciare ai figli è poter dire: “Sono un cristiano nella terra di Cristo”». Con il tempo, spiega il sacerdote, ci si abitua anche ai muri. I cristiani locali questo Natale ne incontrano molti, non solo le barriere di Israele. Dentro il Santo Sepolcro a Gerusalemme, per esempio, gli ortodossi hanno isolato la navata centrale con un muro per separarla dai cattolici. «Puoi reagire con il lamento - afferma don Nagle - oppure guardi quei muri e dici: “Quello che ci divide è anche ciò che ci unisce, perché ci permette di condividere lo stesso luogo”».
E qui spuntano gli spiragli di luce che permettono al Natale di Betlemme di essere, nonostante tutto, una festa. «Se la speranza fosse solo nella politica, ce ne sarebbe poca», dice il sacerdote. «Lo abbiamo capito con la visita di Benedetto XVI a maggio. I cristiani locali avevano forti perplessità, la consideravano politicamente inopportuna. Invece il Papa è venuto e ha dato ai cristiani la certezza di non essere dimenticati» «La speranza - ripete don Nagle - è vivere ora, oggi: non si può aspettare che ci siano due Stati, che scompaia il Muro. Si può essere sorpresi dalla gioia adesso, invece di puntare a un futuro indeterminato».
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