Amira Hass:La sindrome di Gaza


Ho passato quattro settimane negli Stati Uniti, ma ho raccolto poche storie locali. Sono stata troppo impegnata a parlare del mio paese e delle condizioni di vita dei palestinesi, scrive Amira Hass.Eppure ce ne sarebbero di cose da dire. H., uno psicologo che lavora con pazienti affetti dal virus dell’hiv, mi ha raccontato una storia interessante: “Quando ho cominciato, quasi vent’anni fa, mi sembrava un lavoro utile. Ma ho cambiato idea. Tutti i pazienti sono afroamericani poveri, senza un’istruzione superiore. A che gli serve uno psicologo? Vorrei andare in pensione, ma dovrei pagare 24mila dollari all’anno di assicurazione sanitaria. Oggi ne pago solo duemila. Sono in trappola”.Mi ha colpito anche un episodio raccontato da un vecchio attivista che negli anni sessanta era vicino alle Pantere nere: “Mi raccomando, niente bombe questa settimana”, gli ha gridato una donna dopo averlo riconosciuto per strada. “È solo martedì”, ha risposto lui. Avrei voluto intervistarlo, ma non ce l’ho fatta. Non per mancanza di tempo, ma perché sto sviluppando quella che chiamo la sindrome di Gaza. È Gaza il centro del mio universo, tutti i pensieri mi riportano lì, a migliaia di chilometri di distanza.L’altro giorno sono andata a vedere una retrospettiva su Kandinskij al Guggenheim. Il negozio del museo è pieno di pennarelli e di libri per bambini. Il mio primo pensiero è stato prenderne qualcuno per i figli dei Samouni. Pochi giorni dopo la figlia di sei anni dei miei amici di New York mi ha mostrato un disegno (tre donne che ballavano). Ho ripensato all’ultimo disegno che avevo visto. Sì, era di un figlio dei Samouni e raffigurava carri armati, bombe e cadaveri. La sindrome di Gaza



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