di Sebastian ScheinerSoldati israeliani: «A Gaza si sparava a tutto ciò che si muoveva»


Nuove testimonianze raccolte dai media e dalle organizzazioni israeliane sull'operazione «Piombo fuso»
Responsabilità, regole d'ingaggio, disprezzo degli altri nei racconti dei soldati
926 i civili morti sul totale delle oltre 1.400 vittime; 309 secondo fonti israeliane, di cui 189 avevano meno di 15 anni
5.000 le case demolite nella Striscia durante l'operazione Piombo Fuso.
Alcuni testimoni hanno riferito di demolizioni di massa
Ci dicevano: chi è rimasto è un terrorista. Ma se non hanno dove andare?
Per chi si avvicinava un colpo in aria, il secondo ai piedi, il terzo a lui
Se c'è qualcuno di sospetto al piano superiore di una casa, lo colpiamo
Il comandante disse: mettete da parte l'etica… piangeremo dopo
«E' successo qualcosa di nuovo nell'Operazione Piombo Fuso a Gaza, qualcosa che non era mai accaduto», dice al Corriere
Yehuda Shaul, 26 anni, uno dei fondatori di Breaking the Silence, organizzazione di veterani israeliani che dal 2004 raccoglie testimonianze dei colleghi sugli abusi commessi dall'esercito nei Territori Occupati. «Non ho mai sentito storie come queste. L'aggressività dei comandanti, l'uso massiccio dell'artiglieria in un'area urbana, la scomparsa della distinzione tra civili e combattenti. Sono entrati a Gaza senza regole d'ingaggio. Si sparava a tutto ciò che si muoveva e che non si muoveva. Ci sono testimonianze sulla demolizione di massa di
bitazioni senza che ce ne fossero necessità operative». Shaul parla dopo che i quotidiani Haaretz e
Maariv hanno pubblicato giovedì le prime confessioni di soldati israeliani sull'uccisione di civili innocenti e sugli atti di vandalismo compiuti a Gaza. Emerse in un seminario del liceo militare Rabin a febbraio, le testimonianze contraddicono la versione del-l'esercito, e cioè che le truppe avrebbero cercato di proteggere i civili. Ora
Breaking the Silence sta raccogliendo nuove confessioni: già 20 interviste rivelano storie simili a quelle apparse su Haaretz.
RESPONSABILITÀ – Domenica, il capo di Stato Maggiore Gabi Ashkenazi ha difeso l'esercito israeliano, il «più etico del mondo», ma si è detto pronto a punire gli abusi di singole «mele marce». Tuttavia le testimonianze emerse finora mostrano che gli atti commessi a Gaza (per i quali Onu, Lega Araba, Organizzazioni non governative chiedono un'inchiesta per crimini di guerra) non sono iniziativa di singoli – spiega Shaul - ma il risultato di regole e di un clima creati dall'alto.
REGOLE D'INGAGGIO – Dopo una settimana di raid aerei, il 3 gennaio le truppe israeliane entrarono a Gaza. «All'inizio gli ordini erano di andare con mezzi blindati chiamati Achzarit (che significa Crudele, ndr), sfondare la porta e cominciare a sparare all'interno… io lo chiamo omicidio – ha detto un comandante della brigata Givati identificato come Aviv - . Dovevamo andare piano per piano, sparare a chiunque. Mi sono chiesto: qual è la logica? Ci dicevano che era permesso perché chiunque rimanesse nel settore e a Gaza City era un terrorista, perché non se n'era andato.
Non capivo. Da una parte non avevano dove andare, dall'altra ci veniva detto che era colpa loro se non se ne andavano». Aviv racconta di aver tentato di cambiare le regole. «E uno dei miei uomini mi disse: Qui sono tutti terroristi. Dobbiamo ammazzarli tutti».
RAGGIO DI 300 METRI – «Verso la fine della Guerra, se vedevamo qualcuno che si avvicinava a meno di 300 metri dalla nostra postazione, iniziava la regola del "fermo sospetto". Bisognava sparare un primo colpo in aria, il secondo colpo ai piedi e il terzo al sospetto – racconta Benyamin -. Ma gli abitanti qui sono agricoltori. Dopo l'operazione, uomini e donne di 60-70 anni venivano fuori con le ceste a raccogliere la verdura. Ho visto due persone a 250 metri... Si capiva che riempivano di
pomodori un cesto… Ma bisogna applicare la regole». Beyamin si avvicina, vede un vecchietto. «Ho sparato in aria. Ma a Gaza si spara decine di volte al giorno, i contadini non ci fanno caso». Alla fine ha deciso di non eliminarlo.
FOSFORO BIANCO – «Abbiamo usato molto il fosforo», dice uno dei soldati. Nei giorni scorsi l'esercito israeliano ha ammesso l'uso di 20 proiettili al fosforo bianco in una zona abitata, Beit Lahiya, nel nord di Gaza. È in corso un'inchiesta interna.
DISPREZZO – Il quotidiano israeliano Haaretz ha anche scoperto che alcuni soldati hanno fatto realizzare T-shirt personalizzate con immagini di bambini palestinesi morti per festeggiare la fine della guerra. Ce n'è una con un bersaglio disegnato sulla pancia di una donna incinta e la scritta: «Due con un solo colpo». Il quotidiano ha scritto del ritrovamento a Gaza di un documento in ebraico che autorizzava i soldati a far fuoco sui soccorritori della Croce rossa e della Mezzaluna Rossa. Il giorno dopo «Physicians for Human Rights» ha accusato l'esercito di aver impedito l'evacuazione di feriti, sparato su ambulanze e ucciso 16 medici palestinesi.
LA LEZIONE DEL LIBANO – Molte le testimonianze sugli ordini poco «etici» dei comandanti. «Ci ha detto che una lezione importante appresa dalla Seconda Guerra in Libano è il modo in cui si entra in azione: con molto fuoco – dice il soldato Gilad - . Il risultato: poche perdite nell'esercito, molti palestinesi morti». In un documentario sulla guerra a Gaza mandato in onda da Channel 10, un comandante dice ai soldati: «Se c'è qualcuno di sospetto al piano superiore di una casa, lo colpiamo. Se abbiamo sospetti su un'abitazione, la abbattiamo…. Se qualcuno si avvicina disarmato, sparate in aria. Se continua, è morto. Se dobbiamo sbagliare, che sia con le loro vite, non con le nostre». E il riservista Amir Marmor ha confermato al New York Times che il messaggio era «sparare senza pensare alle conseguenze»: il colonnello «ci ha detto: in questa operazione non vogliamo correre rischi; mettete da parte l'etica… piangeremo dopo».


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