Gli scenari dopo la sfida di Mahmoud Abbas all’ONU


  Si è consumato la scorsa settimana il tanto atteso confronto alle Nazioni Unite tra il presidente palestinese Mahmoud Abbas ed il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Abbas ha sottoposto la sua richiesta di piena adesione all’ONU di uno Stato palestinese entro i confini del 1967, con Gerusalemme Est come capitale. Ma, come ci si aspettava, i contenuti di tale richiesta saranno ora esaminati da una commissione del Consiglio di Sicurezza – un processo che potrebbe protrarsi per settimane, se non per mesi.
Nel frattempo, il primo tentativo sarà quello di ricondurre la “riottosa” leadership palestinese al tavolo dei negoziati, pur in assenza di qualsiasi spiraglio che lasci presagire uno sbocco positivo al cosiddetto “processo di pace”, in realtà morto da tempo.
Il Quartetto (Stati Uniti, Unione Europea, Russia e ONU) si è già attivato con un’iniziativa per rimettere in moto il negoziato, la quale però non prevede alcun congelamento degli insediamenti né riconosce i confini del 1967 come punto di partenza per le trattative – un’offerta di fatto inaccettabile per Abbas, poiché per lui accoglierla equivarrebbe a compiere un suicidio politico sconfessando tutti gli sforzi compiuti fin qui dall’Autorità Nazionale Palestinese (ANP). Il presidente palestinese si è ormai spinto troppo in là per poter tornare sui propri passi.
In assenza di uno sbocco negoziale nelle prossime settimane, i 15 membri del Consiglio di Sicurezza potrebbero infine giungere a votare la richiesta palestinese, nel qual caso gli Stati Uniti saranno costretti a porre il veto solo se i palestinesi riusciranno a ottenere 9 voti a proprio favore – un esito ancora tutt’altro che scontato.
Al momento, i palestinesi possono fare un certo affidamento solo su 6 voti favorevoli: quelli dei paesi del cosiddetto BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) più il Libano. Fervono gli sforzi diplomatici palestinesi, americani ed israeliani per far pendere i voti degli “indecisi” (Gabon, Nigeria e Bosnia-Erzegovina) per l’una o per l’altra parte.
Il voto rischia in ogni caso di creare nuove crepe fra americani ed israeliani da un lato ed europei dall’altro, fra i membri della stessa UE, ed ovviamente fra Washington e gli arabi.
Se l’amministrazione Obama fosse costretta a ricorrere al veto, i palestinesi otterrebbero comunque una vittoria morale importante, ed i sentimenti antiamericani in Medio Oriente non farebbero altro che acutizzarsi ancor di più.
Inoltre, se il processo per giungere al voto del Consiglio di Sicurezza dovesse andare per le lunghe, l’ambasciatore palestinese all’ONU Riyad Mansour ha ventilato la possibilità che i palestinesi nel frattempo si rivolgano comunque all’Assemblea Generale per chiedere il riconoscimento della Palestina come Stato non membro “osservatore”.
In sostanza, dunque, quanto è avvenuto – e avverrà – all’ONU, ha ben poco di concreto ai fini dell’agognata creazione di uno Stato palestinese che finalmente chiuda il conflitto mediorientale, ma le implicazioni simboliche non sono da sottovalutare.
Per cogliere pienamente tali implicazioni sarà forse utile riesaminare i contenuti dei discorsi pronunciati dai tre principali attori avvicendatisi la scorsa settimana sul podio dell’Assemblea Generale: Mahmoud Abbas, Benjamin Netanyahu e Barak Obama.
LA SFIDA DI ABBAS
La decisione del presidente palestinese Mahmoud Abbas di non cedere alle pressioni americane, e di andare fino in fondo con la propria iniziativa all’ONU, gli ha fatto guadagnare un ampio sostegno da parte dell’opinione pubblica palestinese.
In un solo giorno egli ha acquisito la statura di leader arabo, oltre che palestinese, in un momento in cui i dittatori arabi stanno soccombendo sotto i colpi delle rivoluzioni, ed i vecchi leader popolari come il segretario di Hezbollah, Hassan Nasrallah, sono in difficoltà perché in parte compromessi con tali dittatori.
Considerato per anni un leader debole e poco carismatico, ulteriormente screditato dal recente scandalo dei “Palestine Papers”, che hanno rivelato fino a che punto egli e l’ANP erano disposti a scendere a compromessi con Israele svendendo i diritti dei palestinesi (soprattutto il diritto al ritorno dei profughi), Abbas ha stupito l’opinione pubblica araba ed il mondo intero con un discorso fermo e senza cedimenti, utilizzando in relazione alle politiche israeliane di occupazione parole dure come “pulizia etnica”, “politiche di apartheid” e “muro di annessione razzista”.
Egli ha affermato che la politica coloniale israeliana in Cisgiordania e a Gerusalemme Est è la causa primaria del fallimento del processo di pace e del venir meno delle grandi speranze sorte con gli accordi di Oslo del 1993.
Ha sottolineato le grandi rinunce compiute dai palestinesi, che hanno accettato di creare il loro Stato su un territorio pari ad appena il 22% della Palestina storica.
Ha ribadito la rinuncia alla violenza da parte dell’OLP e del popolo palestinese, e la condanna di ogni forma di terrorismo, ed ha confermato di credere comunque ad una soluzione negoziata del conflitto che porti alla creazione di uno Stato palestinese entro i confini del 1967, in conformità con le risoluzioni dell’ONU.
Ha ripetuto ancora una volta che gli sforzi palestinesi non sono volti a isolare o delegittimare Israele, ma solo a delegittimare la sua occupazione militare, la sua espansione coloniale e le sue politiche discriminatorie nei confronti dei palestinesi.
Non ha dimenticato di ricordare la drammatica situazione di Gaza, e di citare il diritto al ritorno dei profughi.
Ha concluso dichiarando che l’OLP e il popolo palestinese tendono la mano al governo ed al popolo israeliano per fare la pace, ma che è giunta l’ora che l’occupazione israeliana e le sofferenze dei palestinesi cessino, e che il popolo palestinese “cominci a vivere come gli altri popoli della terra, libero in uno Stato sovrano e indipendente”.
Abbas è dunque riuscito a ridare speranza ai palestinesi offrendo loro una terza via dopo il fallimento della lotta armata e dei negoziati: quella di una battaglia diplomatica a livello internazionale accompagnata da una resistenza civile e pacifica.
Per rafforzare ulteriormente l’immagine nonviolenta di questa nuova battaglia, egli ha parlato di “primavera palestinese”, tentando di paragonare la lotta per il conseguimento di uno Stato palestinese alle rivoluzioni pacifiche di Egitto e Tunisia, piuttosto che ai cruenti spargimenti di sangue che stanno avendo luogo in Libia e Siria.
Al suo ritorno a Ramallah, Abbas è stato accolto come un “eroe nazionale” da una folla entusiasta.
La sua leadership tuttavia rimane fragile. Sul breve periodo egli ha certamente ottenuto una vittoria politica, ma ha anche sollevato speranze che potrebbero essere ben presto deluse. Il popolo palestinese resta diviso. Il sospetto che l’iniziativa di Abbas all’ONU vada a danno del diritto al ritorno dei profughi – un  sospetto diffuso tra i palestinesi della diaspora e tra i sostenitori di Hamas – è rimasto, seppur lievemente attenuato.
In assenza di risultati concreti, Abbas potrebbe non essere in grado di controllare il crescente senso di frustrazione della sua popolazione, la quale potrebbe rivolgere la propria rabbia contro la stessa ANP, notoriamente corrotta e agli occhi di molti asservita di fatto all’occupazione.
In ogni caso, per il momento la “vittoria d’immagine” ottenuta all’ONU ha concesso ad Abbas un attimo di respiro, ed ha rinviato la resa dei conti per il futuro dell’ANP.
LA RISPOSTA DI NETANYAHU
Alla sfida di Abbas, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha risposto con un discorso abilmente confezionato, che certamente ha rafforzato la sua base di consenso in Israele, ma che non sembra aver convinto la comunità internazionale riunita al Palazzo di Vetro di New York (ovviamente se si eccettuano l’alleato americano ed alcuni Stati europei).
Egli ha insistito sul fatto che la pace può essere raggiunta solo attraverso negoziati diretti fra le parti, e non con “atti unilaterali” come l’iniziativa palestinese all’ONU, tacendo però sulla futilità di tali negoziati alla luce 1) dell’ostinazione israeliana ad espandere gli insediamenti in quello stesso territorio sul quale dovrebbe nascere il futuro Stato palestinese, 2) del rifiuto del governo di Tel Aviv di discutere lo status di Gerusalemme, 3) della sua opposizione anche solo a menzionare la situazione dei rifugiati palestinesi.
Con simili prese di posizione, il governo Netanyahu svuota di ogni significato la propria pretesa di aver accettato il principio dei due Stati, che si basa su tre capisaldi riconosciuti a livello internazionale: i confini del 1967, Gerusalemme Est come capitale del futuro Stato palestinese, e una soluzione concordata del problema dei profughi.
Se si eccettua l’appello al negoziato pronunciato all’inizio e alla fine del suo discorso, Netanyahu si è concentrato soprattutto sulle “minacce esistenziali” a cui, secondo lui, deve far fronte Israele (che peraltro – non bisogna dimenticarlo – è la maggiore potenza militare, e a tutt’oggi l’unica potenza nucleare, della regione).
Facendo leva sulle paure degli israeliani, egli ha insistito sul concetto di “confini difendibili” (quelli del ’67 a suo dire non lo sarebbero) e sul riconoscimento di Israele come “Stato ebraico”, in tal modo presupponendo che la nascita di uno Stato palestinese entro i confini del ’67 non porrebbe fine allo stato di belligeranza con gli israeliani, e tralasciando il fatto che la richiesta palestinese all’ONU automaticamente comporta il riconoscimento di uno Stato israeliano sul 78% del territorio della Palestina storica, uno Stato che del resto l’OLP ha già riconosciuto da anni (seppure in assenza dell’attributo “ebraico”).
Con le sue affermazioni Netanyahu ha dimostrato di non voler tenere in alcun conto il fatto che lo stesso Abbas ha ripetuto in più occasioni di essere disposto a permettere lo schieramento di una forza multinazionale a garanzia della pace, e che la stessa iniziativa di pace araba, che giace dimenticata sul tavolo fin dal 2002, offre ad Israele pace e sicurezza entro i confini del 1967, oltre che una soluzione concordata del problema dei profughi e una normalizzazione delle relazioni diplomatiche con i paesi arabi.
A fronte dell’insistenza del suo governo a chiedere ai palestinesi di condurre un negoziato in condizioni impossibili (proseguimento dell’espansione degli insediamenti, rinuncia a Gerusalemme Est, accettazione di uno Stato smilitarizzato e di fatto territorialmente frammentato, e addirittura con una presenza militare israeliana al suo interno – e precisamente al confine con la Giordania), Netanyahu tace sul fatto che in primo luogo è il protrarsi dell’occupazione a mettere in pericolo la sicurezza degli israeliani, obbligandoli a trasformarsi in oppressori e mettendo quotidianamente a rischio la loro vita – oltre che quella dei palestinesi: dalla fine del 2008 ad oggi circa 1.600 palestinesi (in gran parte civili) sono stati uccisi dall’esercito israeliano, a fronte di poche decine di israeliani deceduti (per lo più militari).
Dal punto di vista politico, Netanyahu ritiene che lo stallo dei negoziati in realtà non sia una cattiva notizia per il suo governo, poiché gli consente di protrarre lo status quo a tempo indeterminato. Nei 13 mesi che ancora mancano alle presidenziali americane del prossimo anno egli fra l’altro può confidare sul fatto di essere immune da qualsiasi pressione da parte dell’attuale amministrazione USA.
L’attuale governo israeliano sembra tuttavia incapace di comprendere che il protrarsi dell’occupazione e dell’assedio alla Striscia di Gaza in realtà stanno progressivamente isolando Israele a livello internazionale, e perfino in Europa.
Il fatto di aver “addomesticato” l’amministrazione americana, e di poter contare sul suo appoggio incondizionato, dà a Netanyahu ed al suo esecutivo un falso senso di sicurezza che impedisce loro di rendersi conto che Israele potrebbe perdere la “partita dell’immagine” a livello internazionale, che la potenza dell’alleato americano è in declino a livello mondiale, e che il protrarsi dello status quo – ed il conseguente tramonto della soluzione dei due Stati – rischia di portare destabilizzazione e caos in Palestina e in tutta la regione.
OBAMA E GLI ARABI
Quanto sia illusorio questo senso di sicurezza lo si evince anche dalle reazioni furiose che il discorso di Obama, pronunciato all’ONU giovedì, ha suscitato in tutto il mondo arabo.
Il suo discorso è stato definito, non solo dalla stampa araba ma anche da alcuni esponenti della stessa stampa USA, come il più filo-israeliano mai pronunciato da un presidente americano a una riunione annuale dell’Assemblea Generale dell’ONU – un intervento in stridente contrasto con l’ormai famoso discorso del Cairo con il quale, nel giugno del 2009, Obama aveva tentato di ristabilire l’immagine dell’America agli occhi degli arabi.
Non è un caso che il ministro degli esteri israeliano Avigdor Lieberman, noto per le sue posizioni di estrema destra, abbia dichiarato di volersi congratulare con Obama, e di essere “pronto a firmare questo discorso con entrambe le mani”.
A differenza di quanto aveva fatto al Cairo, Obama ha parlato solo delle sofferenze e delle preoccupazioni di sicurezza degli israeliani. Non una parola sull’occupazione o sugli insediamenti. Non un accenno alle ragioni per cui i negoziati hanno fallito. Per non parlare poi della promessa che egli stesso aveva pronunciato, proprio dal podio dell’ONU lo scorso settembre, di uno Stato palestinese entro un anno.
Parlando di libertà, giustizia e diritti umani per paesi come la Tunisia, l’Egitto e il Sud Sudan, ma non per i palestinesi, egli ha provocato sdegno nella stampa palestinese ed araba, che lo ha accusato di doppiezza e ipocrisia.
Dopo oltre 60 anni di sofferenze, più di 40 di occupazione militare, e 20 anni di inconcludente processo negoziale, l’affermazione di Obama che uno Stato palestinese non può essere ottenuto attraverso “scorciatoie” o “atti unilaterali”, ma solo attraverso “negoziati”, ha esasperato l’opinione pubblica palestinese ed araba.
A nemmeno tre anni dall’ondata di speranza che l’elezione di Obama aveva suscitato in Medio Oriente, la credibilità americana nella regione è a pezzi.
E’ opinione unanime dei commentatori arabi – oltre che di molti osservatori occidentali – che quello del presidente americano sia stato un ottimo discorso di politica interna a fini elettorali, che però ha sacrificato la questione palestinese, il futuro del Medio Oriente, e gli stessi rapporti di Washington con gli arabi, sull’altare della propria rielezione.
Il discorso di Obama all’Assemblea Generale ha chiarito splendidamente per quale ragione i palestinesi non avevano altra scelta che rivolgersi alle Nazioni Unite: la politica interna americana, e l’influenza che la lobby filo-israeliana ha su di essa, impediscono agli Stati Uniti di essere un mediatore imparziale nel processo di pace – un ruolo che è stato monopolizzato da Washington fin dagli accordi di Oslo del 1993.
Il discorso pronunciato all’Assemblea Generale aveva l’unico obiettivo di assicurarsi l’appoggio dei donatori e degli elettori filo-israeliani negli USA.
Paradossalmente, per inseguire questo obiettivo Obama si è arreso alla linea politica di Netanyahu e dei neocon americani, ovvero proprio di coloro i quali faranno di tutto per impedire che egli venga rieletto, e le cui probabilità di successo in quest’impresa non saranno certo diminuite dal recente discorso del presidente all’ONU.
PARALISI IN MEDIO ORIENTE
In conclusione, i discorsi dei tre principali leader impegnati nel processo di pace israelo-palestinese hanno sancito per l’ennesima volta il fallimento di tale processo.
I discorsi di Abbas e Netanyahu hanno confermato che le due leadership coinvolte nel conflitto non si parlano più, ed invece si rivolgono alla propria base per rafforzare il proprio consenso, ed al mondo per infoltire la schiera dei propri alleati, in quella che è ormai una guerra fredda in piena regola.
Il discorso di Obama sancisce un fatto altrettanto importante, e cioè che gli Stati Uniti hanno abdicato alla propria credibilità di mediatore imparziale nel processo negoziale, ed in generale a quella di attore equilibrato in Medio Oriente, pur di stare al fianco dell’alleato israeliano ad ogni costo, a prescindere dalle scelte politiche di quest’ultimo.
Questi tre discorsi hanno suonato ancora una volta la campana a morto del processo di pace, e – assieme ad esso – della soluzione dei due Stati, resa ormai impraticabile dai “fatti sul terreno” imposti da Israele.
La questione israelo-palestinese rimane dunque impantanata in un pericoloso vicolo cieco dal quale sarà difficilissimo uscire. Al tempo stesso, il protrarsi della paralisi espone l’intera regione al rischio crescente di shock violenti e dagli esiti difficilmente prevedibili.
La guerra fredda fra l’ANP e il governo israeliano metterà a dura prova il coordinamento israelo-palestinese che attualmente garantisce la sicurezza in Cisgiordania, soprattutto in vista di un possibile acuirsi delle tensioni fra palestinesi e coloni; e sul medio e lungo periodo metterà a dura prova l’esistenza stessa dell’ANP, se essa si troverà nella situazione di non aver più nulla da offrire al proprio popolo (ed essendo improbabile, data la corruzione e la carenza di leadership al suo interno, che essa riesca a controllare e guidare una resistenza pacifica di lungo corso contro l’occupazione).
Per altro verso, il crollo della credibilità degli USA come mediatore nel conflitto, non implica automaticamente che Washington lascerà il posto ad altri intermediari internazionali, che al momento sarebbero tutti da definire.
L’Unione Europea manca della necessaria coesione politica e sta sprofondando sempre più nella sua drammatica crisi economica, la Russia appare troppo debole e lontana dagli affari della regione, la Cina – in linea teorica il principale candidato a prendere il posto di Washington – non è interessata a impantanarsi nelle sabbie mobili mediorientali.
Pechino per il momento si accontenta di cercare di mantenere un fragile equilibrio tra i suoi due principali fornitori di petrolio fra loro antagonisti – l’Iran e l’Arabia Saudita – lasciando che gli Stati Uniti sperperino le proprie risorse militari ed economiche nella regione, e distruggano la propria credibilità.
Come ha scritto l’analista Leon Hadar, gli americani continueranno perciò a giocare le carte della propria declinante influenza ancora per un po’ in Medio Oriente, barcamenandosi tra le loro numerose e incompatibili alleanze (israeliani, arabi, turchi), e sostenendo ora il vecchio ordine regionale ora il cambiamento.
Tuttavia, in una regione sempre più instabile, percorsa da rivoluzioni e guerre civili, essi saranno sempre meno in grado di controllare l’evoluzione degli eventi.
Nel frattempo, attori regionali come la Turchia cercheranno di creare un nuovo ordine post-americano in Medio Oriente, che sarà difficilmente compatibile con le posizioni dell’attuale governo israeliano.
Per Israele – conclude Hadar – la finestra di opportunità per giungere a un compromesso pacifico all’ombra dell’egemonia americana si sta chiudendo, mentre un numero crescente di variabili rende i futuri scenari regionali sempre più incerti e imprevedibili.

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