Haaretz e Ben White :L’opposizione in Israele è solo per gli ebrei e Le proteste in Israele: una rivolta per lo status quo



 Israele governo di estrema destra e opposizione

L’opposizione in Israele è solo per gli ebrei

Editoriale Haaretz

14 marzo 2023 Haaretz

I capi dei partiti ebraici di opposizione non perdono mai l’opportunità di ripetere l’errore di aderire ad una politica separatista che potrebbe davvero tenerli per sempre all’opposizione.

Questa settimana hanno orgogliosamente annunciato che se le leggi del golpe giudiziario verranno portate in parlamento per la votazione finale essi boicotteranno il voto. Questa è certamente un’importante e meritevole dichiarazione. Ma nella dichiarazione congiunta emessa dal capo di Yesh Atid Yair Lapid, dal capo del National Unity Party Benny Gantz, dal capo di Yisrael Beiteinu Avigdor Lieberman e dalla capa del Labor Party Merav Michaeli, si notava l’assenza di due persone – i capi dei due partiti arabi dell’opposizione, Hadash-Ta-al e la Lista Araba Unita (UAL).

I quattro leader ebrei dell’opposizione hanno mostrato unità nel dichiarare che faranno ogni cosa in loro potere per bloccare ciò che definiscono “un insano insieme di leggi”. Hanno sottolineato che “l’unità nazionale inizia con un dialogo sincero e fin quando la legislazione non sia bloccata resta una mera illusione.”

Ma quanto vale questa unità se esiste solo tra gli ebrei? E che forma assume la battaglia contro questa “insana” legislazione se esclude dalle sue fila i rappresentanti eletti dei cittadini arabi israeliani – la minoranza contro la quale è diretto il golpe, la prima minoranza che ne subirà i danni e, in larga misura, la sua principale vittima?

Lapid, il capo dell’opposizione, purtroppo sceglie di incitare contro gli arabi, come è sua abitudine, piuttosto che porgere ad essi una mano per costruire un’alleanza civile abbastanza ampia perché ebrei e arabi marcino insieme.

Il golpe giudiziario di Israele

Interrogato sul perché i leader dell’opposizione araba fossero assenti dall’incontro dei capi dell’opposizione ebrei, ha risposto che il capo della UAL Mansour Abbas è stato invitato ma non si è presentato, mentre il capo di Hadash- Ta’al Ayman Odeh “collabora con il Likud”, il partito del Primo Ministro Benjamin Netanyahu.

Questa risposta non è che demagogica, del genere usato da Netanyahu. A differenza di Lapid, Lieberman e Gantz, Odeh non ha mai lavorato con Netanyahu e di sicuro non “lavora con il Likud.” E’ anche ragionevole ritenere che non abbia intenzione di lavorare con Netanyahu in futuro, sia a breve che a lungo termine.

Da uno che pensa di guidare l’opposizione, di opporsi ad una destra guidata da Netanyahu, Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir e di lottare in nome della democrazia liberale, non ci si aspetta che dica cose del genere.

Di fatto ha il dovere di creare un’alleanza con la minoranza araba, di impegnare tutta la sua forza politica per porre le fondamenta di una sincera e solida collaborazione tra ebrei e arabi, di abbattere i muri della paura e dell’odio e di superare gli ostacoli ad una simile collaborazione. Perché solo insieme ci può essere una motivazione o una possibilità di sostituire il governo.

Un’opposizione fatta da soli ebrei non ha diritto di esistere in un’alleanza per la democrazia. L’opposizione a questo governo “totalmente di destra” deve essere totalmente democratica. E non può esserlo senza i cittadini arabi di Israele.

Questo articolo è il principale editoriale di Haaretz, pubblicato sui giornali ebraici e inglesi in Israele.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)


Le proteste in Israele: una rivolta per lo status quo


3 marzo 2023 – The New Arab

Le proteste antigovernative israeliane non riguardano un cambiamento “rivoluzionario”, ma il mantenimento dello status quo, sostiene Ben White, uno status quo che include un regime di apartheid per i palestinesi.

“Dov’eri ad Hawara?” Così recita il coro rivolto di recente alla polizia israeliana dai manifestanti [israeliani, ndt] antigovernativi, in seguito all’orrendo attacco dei coloni nella città dell’area di Nablus.

Mentre per alcuni, le accuse ripetute sono da intendersi come un atto d’accusa contro l’impunità dei coloni, hanno anche un messaggio più problematico. L’implicazione è che la polizia fosse assente, un vuoto sfruttato da coloni fanatici. In realtà le forze israeliane erano presenti e hanno accompagnato e protetto i coloni.

Una domanda di gran lunga migliore di “Dov’eri ad Hawara?” sarebbe “Perché siamo ad Hawara?” Ma questo interrogativo non viene posto, figuriamoci dare una risposta. Il movimento di protesta che attanaglia Israele ha un obiettivo semplice: fermare un governo nel suo cammino. Non vuole il cambiamento, vuole che le cose rimangano le stesse.

Questa è la chiave per capire come e perché l’opposizione ai piani del governo abbia mobilitato settori della società, comprese le grandi imprese e l’hi-tech, fino ai riservisti d’élite.

La folla per le strade e le promesse di disobbedienza civile possono sembrare ad alcuni una “rivoluzione”, ma la forza trainante è un appello per la stabilità dello status quo, che include il regime di apartheid sperimentato dai palestinesi.

Legge e ordine coloniale: rendere legale l’illegale

Si è parlato molto delle voci di protesta provenienti da attuali ed ex membri dei servizi militari, di sicurezza e di intelligence israeliani. Haaretz ha recentemente pubblicato un ampio articolo in cui intervista approfonditamente un certo numero di riservisti che si stanno mobilitando contro la revisione del sistema legale, che includerà – tra le altre modifiche – il potere della Knesset di annullare le sentenze della Corte Suprema.

Alcuni sono stati invitati a riflettere sul motivo per cui questi sviluppi li hanno spinti a rifiutare il servizio diversamente da quanto successo in seguito alle esperienze nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza. Le loro risposte sono istruttive:

Sapevamo molto bene cosa stavamo facendo. Non ci siamo opposti, non ci siamo rifiutati di obbedire agli ordini, perché capivamo che questo è un Paese democratico”.

“Almeno fino ad oggi, potevi dire a te stesso che tutte quelle decisioni, anche quando erano controverse… venivano prese all’interno delle regole del gioco di un paese democratico”.

“Potevi avere dubbi sulla loro moralità, ma erano state prese nel contesto di un conflitto lungo anni tra due parti, una delle quali si comportava come una democrazia”.

Quando ti viene richiesto di compiere azioni nell’area grigia, sull’orlo del nero, specialmente rispetto agli attacchi a Gaza, lo fai come missione ordinata da un governo che agisce nel quadro di regole del gioco chiare e definite”.

L’idea che i propri ordini siano stati legalmente approvati, e la convinzione che Israele sia un “paese democratico”, sono un elemento centrale nell’autogiustificazione per compiere atti che sono, di fatto, illegali (a livello internazionale) e profondamente anti-democratici (mantenimento di un regime di apartheid nei confronti dei palestinesi).

Un’altra lettera di circa 150 riservisti dell’esercito israeliano che prestano servizio come specialisti informatici ha avvertito che se le modifiche proposte diventeranno legge, “il quadro morale e legale che ci consente di sviluppare e gestire gli strumenti sensibili che utilizziamo sarà danneggiato”.

“Ci consente” di pronunciarci in più di un senso. Il 12 febbraio, il Comitato Costituzione, Legge e Giustizia della Knesset ha ascoltato una discussione sulle “possibili conseguenze” dei nuovi cambiamenti “sui tentativi di Israele di far fronte alla campagna legale internazionale” – vale a dire gli sforzi per portare in giudizio i responsabili dei crimini di guerra commessi nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza.

Il vice procuratore generale Gilad Noam è stato chiaro: la “percezione del sistema giudiziario israeliano nell’arena internazionale come indipendente, professionale e apolitico” è stata “una barriera molto significativa all’intervento esterno”, paragonata nel suo impatto a “Iron Dome” [il sistema di difesa antimissilistico utilizzato contro i razzi provenienti dalla Striscia di Gaza, ndt].

Indipendentemente dalla realtà di un sistema caratterizzato non solo da una cultura dell’impunità ma anche da “innovazioni” giuridiche per giustificare i crimini di guerra, è la “percezione” dell’indipendenza del sistema giudiziario che conta. Ora, i funzionari israeliani – e i riservisti dell’aeronautica – sono preoccupati di poter essere soggetti ad arresti in altri paesi.

I palestinesi e le proteste: assenti e presenti

Tali discussioni, e la mobilitazione dei riservisti, sono un esempio di come i palestinesi siano sia assenti che presenti nel movimento di protesta israeliano.

Sono assenti nel senso che non c’è riconoscimento della loro realtà di espropriazione, segregazione e violenza. Le poche bandiere palestinesi apparse inizialmente hanno solo stimolato un’ondata di bandiere israeliane. Gli stessi cittadini israeliani palestinesi non si sono presentati in gran numero.

Eppure i palestinesi sono anche “presenti” in quanto fanno parte di questa storia in ogni momento – dalle ragioni della mancanza di una costituzione formale da parte di Israele negli anni successivi alla Nakba, fino alle ambizioni di Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir per l’accelerazione dell’espansione coloniale e dell’annessione.

Colpisce che il bulldozer corazzato D9 dell’esercito israeliano sia diventato una metafora popolare per indicare la riforma del sistema giudiziario dell’attuale governo tra i suoi oppositori, tra cui l’ex primo ministro Ehud Barak, l’ex ministro della difesa Moshe Ya’alon e l’ex parlamentare del Likud Limor Livnat.

L’allusione senza ironia al D9 – utilizzato per demolire migliaia di case palestinesi – illustra perfettamente i parametri di queste proteste e quale tipo di “democrazia” cercano di preservare.

Un’occupazione ordinata

Una delle ironie delle attuali divisioni politiche che attanagliano la società israeliana, e della situazione in cui si trova Netanyahu, è che la forza dell’opposizione alla legislazione pianificata è, in parte, la testimonianza di quanto successo abbia avuto il leader del Likud nella “gestione del conflitto”. ‘.

Riconfezionata sotto Naftali Bennett come “restringimento dell’occupazione”, il suo nocciolo era facilmente comprensibile: l’economia israeliana è solida, i palestinesi sono sotto controllo e, a poco a poco, la colonizzazione e l’annessione de facto possono procedere in modo incrementale: l'”occupazione invisibile”.

È una adesione a questo status quo che anima il movimento di protesta: un ambiente stabile per gli investimenti e una magistratura indipendente dalla Knesset ma per niente indipendente dalla spinta colonizzatrice in Cisgiordania o dalla discriminazione subita dai cittadini palestinesi.

La furia dei coloni ha reso Hawara una parola d’ordine tra i manifestanti israeliani per la sua caotica incompetenza e fanatismo. Ma l’esperienza di Hawara sotto il governo militare, come per centinaia di altre comunità palestinesi, non è stata di “caos” ma di ordine: un ordine coloniale.

Ben White è uno scrittore, analista e autore di quattro libri, tra cui “Cracks in the Wall: Beyond Apartheid in Palestine/Israel”.

Le opinioni espresse in questo articolo sono quelle dell’autore e non rappresentano necessariamente quelle di The New Arab, del suo comitato editoriale o della redazione.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




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