Gilbert Achcar :La terribile illusione della Primavera Araba





31gennaio  2016
Beirut – All’inizio della Primavera Araba una manciata di analisti osservò che quello iniziava in Tunisia e che si diffondeva nel resto della regione era proprio l’inizio di un processo a lungo termine che avrebbe necessariamente avuto degli alti e bassi –          impennate rivoluzionarie e ostacoli  contro-rivoluzionari.
A cinque anni dalla rivolta, attivisti e analisti dicono che la storia è lungi dall’essere conclusa, con  una miriade di problemi complessi e difficili in gioco. Però, malgrado tutto il pessimismo che attanaglia  la regione, c’è ancora speranza.
Gilbert Achcar, professore di studi sullo sviluppo e di relazioni internazionali   presso la Scuola di Studi Orientali e Africani  (SOAS) all’Università di Londra, e autore del libro: The People Want: A Radical Exploration of the Arab Uprising [La gente lo vuole: un’analisi radicale dell’insurrezione araba], insegnava ai suoi studenti il potenziale esplosivo nel mondo arabo molto tempo prima della Primavera Araba. Crede che i problemi fondamentali al centro dell’esplosione  fossero principalmente socio-economici, e che il processo rivoluzionario sia destinato a continuare nei decenni futuri.
Al Jazeera: Nel suo libro e nelle sue analisi in generale, non si riferisce a quello che è successo nel 2011 come “Primavera Araba” o rivoluzione.  Perché?
Gilbert Achcar: La maggior parte delle persone ha usato il termine “rivoluzione” per riferirsi alla sequenza iniziale di avvenimenti, come quando, parlando  della “Rivoluzione del 25 gennaio in Egitto” si intende quella che finisce l’11 febbraio, o anche chiamando “rivoluzione” con la data in cui è caduto l’autocrate, come accade quando si parla della “Rivoluzione del 14 gennaio” a Tunisi. Quello che ho continuamente evidenziato fin dal 2011, è che siamo soltanto all’inizio di un processo rivoluzionario a lungo termine che andrà avanti per anni e per decenni. Come in tutti i processi storici di questo genere, ci saranno alti e bassi, rivoluzioni e controrivoluzioni, impennate e contraccolpi. La mia opinione sugli avvenimenti  è asserita in base alla mia analisi degli argomenti al centro di questo processo rivoluzionario che sono quelli che ho studiato e insegnato da parecchi anni.
Ho considerato l’esplosione non principalmente come la conseguenza di una crisi politica, come è stata ampiamente descritta, o come provocata dalla sete di libertà politica. Certamente questa è stata una dimensione importante dell’insurrezione, ma comunque le radici più profonde dell’esplosione, secondo me, erano socio-economiche. Per vari decenni il mondo arabo ha avuto le percentuali più basse di crescita economica in confronto a tutte le regioni dell’Asia e dell’Africa, e i più alti tassi di disoccupazione del mondo, specialmente la disoccupazione giovanile e femminile.
Questi erano gli ingredienti fondamentali della grossa esplosione. E non sono problemi che  possono essere risolti con una nuova costituzione o con un semplice cambiamento di presidente. Si possono risolvere soltanto per mezzo di un cambiamento radicale delle strutture sociali, politiche ed economiche che richiedono una vera rivoluzione sociale, una rivoluzione che non può essere puramente politica.
Il problema è che non c’erano forze organizzate che rappresentavano un obiettivo così radicale e che lo perseguivano con una strategia coerente. Questo è il motivo per cui per me era ovvio che ci voglia molto tempo prima che il processo arrivi a una conclusione. E non c’è assolutamente la certezza che il processo terminerà con il tipo di cambiamento progressista che è necessario. Quello che è sicuro è che, senza un cambiamento di questo genere, la regione continuerà a vivere nel subbuglio e nella violenza.
Al Jazeera:   Ma che cosa dice dei due mesi precedenti la rivoluzione egiziana, quando la Banca Mondiale ha diffuso un rapporto con una valutazione positiva della prospettiva economica  in Egitto?
Achcar: Capitò che due anni prima della rivoluzione egiziana, nel 2009, avessi scritto una critica della valutazione delle istituzioni finanziarie internazionali circa l’economia egiziana, in un periodo in cui gli indicatori economici mostravano una tendenza positiva. Nella mia critica spiegavo che questo era soltanto una conseguenza dell’aumento dei prezzi del petrolio in quell’epoca, che non sarebbe durata, e che le tensioni in Egitto stavano realmente peggiorando.
Detto questo, un’esplosione politica della grandezza di quella avvenuta nel 2011, deve essere necessariamente innescata da una convergenza di vari fattori. Non è mai un singolo problema che produce un’esplosione regionale così grossa, come abbiamo visto.
Se l’insurrezione fosse stata limitata a un solo paese arabo, si sarebbe potuto credere  che qualsiasi fattore particolare di quel paese fosse la causa alla radice. L’insurrezione, invece, travolgeva l’intera regione araba, un fatto che richiede che indaghiamo su quali fattori esplosivi sono comuni a tutti questi paesi. Il più importante è la crisi socioeconomica strutturale.
Naturalmente c’erano altri fattori, come i vari fattori politici: per esempio, l’effetto destabilizzante dell’occupazione americana dell’Iraq nel 2003, colpì l’intera regione.
Al Jazeera: Ma quelle deprimenti condizioni socioeconomiche esistevano da molto tempo. Perché hanno innescato il cambiamento in questo particolare momento, e non prima?
Achcar: Il problema non è perché la regione è esplosa nel 2011, ma perché ci ha messo tanto tempo a esplodere. Lo dico perché la situazione regionale è stata esplosiva per così tanto tempo. Se poniamo la domanda in maniera diversa, e  ci chiediamo: “Perché è cominciata in Tunisia, perché è seguito l’Egitto, che cosa c’è di
particolare in questi due paesi?”, troveremo che queste sono le due nazioni arabe dove la crisi sociale ha trovato la sua più chiara espressione nella lotta.
In Tunisia ci sono stati molte insurrezioni locali prima di quella che è diventata la rivolta nazionale. Le precedenti insurrezioni sono rimaste a livello regionale, ma erano comunque piuttosto importanti. Anche l’insurrezione a Sidi Bouzid del dicembre 2010 iniziò come una rivolta regionale: si diffuse a livello nazionale come conseguenza dell’accumulo di rabbia e di lotte che la precedettero. La Tunisia ha il più forte movimento di lavoratori,  genuino, organizzato nell’intera regione. A livelli di  membri ordinari e intermedi, agiva come forza di opposizione che non era controllata dal regime dell’ex presidente tunisino Zine El Abidine Ben Ali.
Il sindacato dei lavoratori tunisini ha svolto un ruolo chiave nell’organizzare l’ampiezza dell’insurrezione, e poi nel rovesciare il presidente. L’Egitto, da parte sua, aveva visto la più importante ondata di scioperi di lavoratori nella sua storia dal 2006 al 2011. Quindi, nei due paesi dove iniziò l’insurrezione regionale, un cumulo di lotte sociali aveva preparato il terreno per l’insurrezione, a conferma del fatto che il problema è profondamente socio-economico.
Al Jazeera: Nella sua ricerca lei mette in evidenza il ruolo svolto dal movimento dei lavoratori. Perché questa è una componente così importante nel processo rivoluzionario?
Achcar: Sarebbe difficile chiamarlo un “movimento” nel caso dell’Egitto, perché non è organizzato, è meglio quindi parlare di lotta dei lavoratori. Queste lotte sono importanti perché sono l’espressione più diretta del problema centrale: il problema socioeconomico. Sia in Egitto che in Tunisia, si potevano svolgere  scioperi e  lotte sociali, al contrario che in molte paesi della regione, come la Libia o la Siria che erano così repressive che non era possibile ci fossero lotte di questo genere.
Sia in Egitto che in Tunisia, era possibile che si costruisse  un movimento sociale e anche un’opposizione politica, anche se entro dei limiti. Quando iniziò l’insurrezione, potè assumere la forma gigantesche mobilitazioni di massa, mentre la continuazione logica della rigida proibizione di qualsiasi lotta politica o sociale da imposta dai regimi libico e siriano erano nel modo in cui affrontavano le dimostrazioni, tentando di soffocarle in un modo molto più sanguinoso di quello che c’era stato in Tunisia o in Egitto. Però far cadere il presidente in quei due paesi lasciò uguale la maggior parte dello stato repressivo.
Al Jazeera: Che cosa è andato storto allora? Direbbe che la gente era troppo ingenua, che i rivoluzionari non hanno studiato le loro società e che non sapevano contro quale tipo di stato erano alle prese?
Achcar: Ebbene, questo è esattamente il problema della leadership, delle  avanguardie  politiche nei movimenti sociali che sono in grado di dare un orientamento politico. Per esempio, prendete la “Rivoluzione del 25 gennaio”, come viene denominata:  è stato un grande momento, un grandissimo evento storico, ma l’insurrezione era dominata da enormi illusioni che aveva il movimento di protesta.
Sebbene fosse iniziato a opera di gruppi di opposizione, parte dei quali erano molto radicali, la maggior parte di quel movimento di protesta era composto da forze politiche tradizionali che si erano unite al movimento, come la Fratellanza Musulmana e i Salafiti. Queste forze svolsero un ruolo fondamentale nel  favorire  le illusioni sull’esercito in particolare.
Quindi il movimento di protesta ha finito col chiedere che l’esercito rimuovesse l’ex Presidente egiziano Hosni Mubarak. C’è stata una replica di questo con una sequenza molto più breve, dal 30 giugno al 3 luglio 2013. In entrambi i casi abbiamo visto una gigantesca mobilitazione di massa che chiedeva all’esercito di rovesciare il presidente   nel suo nome.
L’illusione terribile quindi è che, mentre il principale slogan dell’insurrezione era : “La gente vuole abbattere il regime”, pochissimi compresero che l’esercito è la spina dorsale del regime e che è stato così da decenni. Il regime non poteva essere ridotto a Hosni e a Gamal Mubarak e ai loro compari. Questi erano soltanto la punta dell’iceberg. La spina dorsale del regime era l’esercito che fin dall’era di Sadat si era trasformato in un grosso gruppo commerciale e in una forza economica oltre al suo ruolo politico.
Non si possono biasimare le persone comuni se hanno queste illusioni e se prendono per buona l’immagine che forze armate  proiettano di se stesse, ma qui c’è stata una mancanza di leadership radicale in grado di spiegare alle gente che cosa c’era in gioco. Rimane la speranza che la vasta massa del popolo possa imparare dalla propria esperienza , ma non è così facile.
Gli egiziani potrebbero arrivare a capire che l’esercito è parte del problema, non parte della soluzione, ma il nuovo-vecchio  regime li sta spaventando affermando che l’alternativa al problema che rappresenta è un problema ancora peggiore. Questa è l’ultima carta ideologica di tutti i regimi arabi di oggi. Dichiarano: “O noi o la Siria, la Libia, Daesh [ISIL]”.
Al Jazeera: alcuni sostengono che proprio il fatto che questi fossero movimenti senza un leader fosse il motivo fondamentale del loro successo. Come risponderebbe a questo?
Achcar: Coloro che dicono così, confondono l’assenza di leadership carismatiche con l’assenza di leadership in generale. Il fatto, tuttavia, è che le reti politiche e sociali e le coalizioni hanno guidato l’insurrezione dovunque. Il problema è che anche quelle forze che considero progressiste hanno continuato a oscillare tra il vecchio regime e la sua opposizione religiosa di tipo fondamentalista. Sostanzialmente, sia il vecchio regime che la sua opposizione religiosa erano profondamente contrarie al processo rivoluzionario, e tuttavia, la sinistra progressista e le forze liberali passavano da un’alleanza con la seconda (cioè l’opposizione religiosa) contro il primo (cioè il vecchio regime), a un’alleanza con  il primo contro la seconda. Questa oscillazione è disastrosa.
Questa miopia degli attuali movimenti progressisti nella regione è il problema principale che deve essere superato se deve mai esserci qualsiasi esito progressista del processo rivoluzionario. Senza questo, vedremo ancora questo processo profondamente degenerativo a cui stiamo assistendo adesso, con più regimi dittatoriali brutali da una parte, e dall’altra la comparsa di Daesh e simili – quello che definisco “lo scontro di barbarie”.
Al Jazeera: Con progressista lei indica il liberale/laico che è l’opposizione non religiosa?
Achcar: Con progressista intendo tutti coloro che sono favorevoli all’uguaglianza sociale e alla democrazia, sapendo che non può esserci vera democrazia senza un laicismo propriamente inteso. Non ci può essere democrazia senza una separazione tra religione e stato. La religione non dovrebbe interferire con lo stato e, analogamente lo stato non dovrebbe intromettersi nella religione.
La religione dovrebbe essere la sfera della libertà individuale: se una donna vuole indossare o no il velo, fa parte della sua libertà personale – nessuno dovrebbe imporglielo, né lo stato e neanche la famiglia. La libertà  funziona in entrambe  le direzioni. Il problema quindi non è:  religioso in confronto con laico, dove laico vuol dire progressista  e religioso significa oppressivo. Si può essere benissimo religiosi e progressisti oppure laici e oppressivi.
Al Jazeera: Uno dei problemi sollevati durante la Primavera Araba era proprio quello dei codici binari come: laico contro  islamista, e i rivoluzionari si erano impantanati in questi dibattiti polarizzanti.
Achcar: Questi sono, però, discussioni completamente fasulle. Per esempio, il Presidente egiziano Abdel Fattah el-Sisi, è laico? Il partito salafita Nour che lo sostiene, è un partito laico? Coloro che descrivono Sisi come laico stanno di fatto cercando una scusa per appoggiarlo. Tra questi ci sono molti di coloro che si auto-dichiarano progressisti e che cercano di giustificare la loro posizione in appoggio ai militari.
Né Sisi né il Presidente siriano Bashar al-Assad sono laicisti. Sisi, come Mubarak prima di lui, fa affidamento sui Salafiti, mentre Assad ha permesso il Salafismo in Siria anni prima dell’insurrezione, perché entrambi credono che i Salafiti siano forze conservatrici che possono ammortizzare l’opposizione. Questo non è affatto laicismo.
Il problema qui è che coloro che sono motivati da una fobia per il fondamentalismo islamico per qualsiasi ragione, fanno un enorme errore a credere che la dittatura sia il rimedio o l’antidoto alla deriva religiosa.
Al Jazeera: Sarebbe d’accordo con coloro che dicono che non tutto è andato perduto nella rivoluzione egiziana?
Achcar: Direi che non soltanto non è finita, ma che è realmente ancora all’inizio. Bon sono né ottimista né pessimista, ma quello che ho detto dall’inizio è che questo è un lungo processo co alti e bassi. Sapere che è un processo storico vi impedisce di cadere in costante cambiamento di umore. I primi due anni del processo rivoluzionario sono stati anni di   che sono stati poi seguiti da un contraccolpo.
Ci saranno, comunque altre fasi. Esiste ancora molto un potenziale rivoluzionario. Prendete il caso dell’Egitto: il fatto che, nelle scorse elezioni, il tasso di partecipazione al Cairo sia stato del 19%, secondo le cifre ufficiali, indica che la maggior parte delle persone non aderisce al regime. Naturalmente un sacco di gente cade nella passività e nella rassegnazione perché crede che l’alternativa a questo regime sgradevole sarebbe anche peggiore. Questo è ciò che precisamente il regime vuole che le persone credano. La “guerra al terrore” è diventato il principale argomento di tutti i regimi repressivi.
Ciononostante, si stanno svolgendo lotte di lavoratori in Egitto in segno di sfida per una legge anti-proteste che è più repressiva della legge dell’epoca di Mubarak. Questo ci dice che l’argomento della “guerra al terrore” funzionerà soltanto per un po’, ma alla fine, presto o tardi, la crisi socioeconomica che in primo luogo ha provocato l’esplosione, porterà ancora a nuove esplosioni. Le recenti proteste in Tunisia sono il migliore esempio di quello che sto dicendo.
La mia sola paura è che i regimi dittatoriali, nel contesto della crisi sociale ed economica, alimenteranno la forma di terrorismo che rappresenta Daesh. I giovani potrebbero cercare qualsiasi tipo di forza che sembri radicalmente opposta all’opposto dell’ordine esistente.
Sappiamo da vari studi che molti di coloro che si sono uniti a Daesh non lo hanno fatto per motivi religiosi, ma perché erano attirati dalla sua posizione radicale e violenta contro il vecchio regime, che sono arrivati a odiare in grande misura. L’unico antidoto a questo pericolo è la comparsa di un’alternativa radicale realmente progressista.
Al Jazeera: Che cosa insegna oggi ai suoi studenti riguardo alla Primavera Araba?
Achcar: Non la chiamo Primavera Araba, ma insurrezione araba. Quello che insegno è sempre lo stesso, in parte perché ho la necessità che gli studenti comprendano le profonde radici  strutturali e le cause dell’insurrezione regionale affinché ne comprendano la natura come processo storico e la natura della fase della quale siamo attualmente testimoni.
Il mio prossimo libro: Morbid Symptons: Relapse in the Arab Uprising, [Sintomi morbosi: ricaduta nell’insurrezione araba] che uscirà in primavera, analizza la fase attuale di controrivoluzione e di reazione negativa. Ci saranno varie altre fasi e altri episodi, fino a quando o vedremo la comparsa di dirigenze realmente progressiste in grado di condurre tutta la regione verso un’alternativa progressista al vecchio ordine, come ho detto in precedenza, oppure l’intera regione araba affonderà nel collasso delle civiltà. E’ accaduto una volta nella sua storia con la presa di Baghdad nel 1258 (per mano dei Mongoli di Hulagu Khan, n.d.t.) e potrebbe avvenire di nuovo. Questa dovrebbe essere un’ispirazione per un’azione risoluta per costruire un’alternativa progressista, invece che per disperarsi.
Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo
www.znetitaly.org
Fonte: https://zcomm.org/znetarticle/the-terrible-illusion-of-the-arab-spring
Originale: Aljazeera
Traduzione di Maria Chiara Starace
Traduzione © 2016 ZNET Italy – Licenza Creative Commons  CC BY NC-SA 3.0

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