«A Gaza non sei mai giovane», il racconto di Mohammed
La
storia di un singolo che si riflette in quella di un Paese, la
Palestina. E dei suoi giovani, di cosa significa esserlo nei territori
di Gaza e West Bank
dailystorm.it
Storytelling | “Hai sempre una responsabilità verso qualcosa: la tua terra, la tua comunità, la tua famiglia, verso te stesso. Sai che non sei come gli altri ragazzi del mondo, lo impari da piccolo”. Così si cresce in Palestina. Storia di Mohammed, ingegnere informatico e attivista
— di Cecilia D’Abrosca
Siamo nel contesto palestinese.
Nello specifico, quello dei territori occupati di Gaza e del West Bank
(Cisgiordania). Mi rivolgo ad un attivista per i diritti umani del
popolo della Palestina, Mohammed H. (il cognome della famiglia è omesso
per una questione di riservatezza). Gli chiedo di spiegarmi quale sia la
libertà di movimento e di circolazione che un giovane
della sua età può esercitare entro lo spazio cittadino e al di fuori,
posto che un tale esercizio sia condizionato da uno speciale permesso
concesso dall’autorità israeliana. Mohammed ha 31 anni, è un palestinese di Gaza, laureato
in Ingegneria Informatica all’Università di Tripoli, lavora come
ingegnere informatico e vive ad Istanbul da cinque anni. Da giovani i
suoi genitori si trasferirono in Libia, arrivando lì come rifugiati. Mi
spiega che i palestinesi di Gaza e del West Bank hanno un ID card di colore verde,
rilasciato da Israele, che utilizzano come documento ufficiale, e
alcuni di loro hanno il passaporto con validità di 5 anni, concesso
dall’ Autorità Nazionale Palestinese con l’okay di Israele. Cosa
significa questo, concretamente? L’impossibilità di lasciare la Palestina qualora non vi fossero “le circostanze” adatte ad ottenere il passaporto.
Mohammed richiama l’attenzione sul fatto che l’ID, o green card, si differenzia da quello di colore blu,
che fa capo ai palestinesi che vivono in alcune zone di Gerusalemme e
Israele. La concessione del permesso ad uscire dalla propria città e
rientrarvi è subordinata alle decisioni di Israele, o
in alcuni casi dell’Egitto, unita alla pericolosità e fragilità degli
equilibri politici al momento della richiesta. In sostanza, la capacità
dei palestinesi di esercitare i diritti della persona — riconosciuti
come inalienabili, intrasmissibili, imprescindibili, irrinunziabili, non
patrimoniali — è di tipo “discrezionale” e non giuridicamente
garantito.
Ciò accade perché siamo in presenza di uno Stato, quello di Palestina, riconosciuto de facto e non de iure dalla
comunità internazionale: uno Stato che pur avendo ottenuto
l’indipendenza nel novembre del 1988 non esercita regolarmente l’effettività (l’esercizio del potere su una comunità territoriale specifica) e l’indipendenza, o sovranità esterna (quando
l’organizzazione del governo nondeve dipendere da un altro Stato).
L’utilizzo di un colore diverso dei documenti ha lo scopo di facilitare l’individuazione della città o zona di provenienza dei palestinesi,
che durante le ore del giorno fanno la fila ai checkpoint, fissati da
Israele, per poter attraversare la città, recarsi altrove o ritornare a
casa, dopo il lavoro o l’università.
I checkpoint sono stazioni di controllo militare
collocati in luoghi specifici, hanno lo scopo di controllare l’identità
di chi li attraversa per questioni di sicurezza. Di solito vi è un
equipe di militari dell’esercito israeliano che compie un piccolo
interrogatorio ad alcune persone, dopo aver controllato loro i
documenti. Lavorano ogni giorno e a tutte le ore, seminando caos e ritardi.
Il giovane spiega che se un palestinese di Gaza deve raggiungere, ad
esempio, una città del West Bank, il passaggio al checkpoint si
accompagna ad una sorta di interrogatorio, mirante ad accertare l’assenza di legami con i movimenti di resistenza locali. Un discorso simile va fatto nel caso in cui per diversi motivi si debba lasciare la Palestina. Ad est l’unica via d’uscita è attraverso la Giordania,
e i palestinesi che vogliano trasferirsi o solo fare un viaggio ad
Amman, ad esempio, o in Libano, oltre al passaporto dovranno ottenere due permessi: dall’Autorità Nazionale Palestinese e da Israele. Ad ovest, invece, occorrerà l’autorizzazione anche da parte dell’Egitto.
Mi appresto per un minuto ad immaginare la mia giornata,
o la mia estate o la mia vita, scandita da questi controlli e attese,
da queste forme di esercizio alla resistenza, al silenzio, al racconto
di una quotidianità limitata e animata dal desiderio di giovani, e meno
giovani, di fare in modo che io sappia “come stanno le cose”,
che un mio coetaneo, un mio parente o vicino di casa vengano a
conoscenza delle linee che la propria vita, disegnata da altri, può
assumere.
Gli domando quali siano le forme e gli spazi
riconosciuti ad un ragazzo palestinese, entro i quali possa esercitare
il suo diritto ad essere felice. Quali siano i momenti che gli ricordano
di essere giovane e per quale motivo, pensa, ci si possa sentire
giovani in Palestina. «Come palestinese non si è mai giovani! Hai sempre una responsabilità verso qualcosa:
la tua terra, la tua comunità, la tua famiglia, verso te stesso. Lo sai
che non sei come gli altri ragazzi del mondo, perché lo impari da
piccolo». Si cresce con la consapevolezza di essere stranieri e vivere in un Paese (il riferimento è alla Libia) dove non sei benvoluto né accettato. Al contrario, se rimani in Palestina sai di vivere in un territorio occupato (Gaza e West Bank) dove ben presto impari cosa significhi la povertà, quella “cultura della povertà”
di O. Lewis che accomuna i membri di una comunità, portatori di un
insieme di valori e pratiche quotidiane che si oppongono a quelle
dominanti, ma che trovano la loro conservazione, rafforzamento,
perpetuazione, nell’unità del gruppo. Come dire, «la
fase giovanile è necessaria ad abituarsi sin da subito all’umiliazione
dell’occupazione, alla mancanza di opportunità e occasioni per
migliorare se stesso».
Essere giovani in Palestina significa terminare gli studi universitari secondo
la durata legale, iniziare dei corsi post laurea, lavorare in società e
aziende che dall’oggi al domani falliscono; da questo istante inizia la
trafila per ottenere il visto d’ingresso per Europa o Stati Uniti o Canada, per continuare gli studi o per cercare migliori possibilità di vita. Molti aspettano anni, e nell’attesa smettono di sognare.
Mohammed vorrebbe andare in Germania a far visita a sua sorella che
vive lì, ma le condizioni richieste per ottenere il visto d’ingresso
prevedono garanzie economiche molto alte. Ha molti amici in Europa, a tal proposito, e ha notato che, nonostante le differenti storie di vita, tra loro vi è una comunanza e affinità di valori:
il rifiuto dell’oppressione, la violenza psicologica, quella verbale,
il razzismo, la capacità di osservazione critica della realtà ed una
consapevolezza maggiore.
Infine gli domando se c’è una parte di sé che ha lasciato in Libia e un’altra che ha scoperto di avere,
dopo il suo trasferimento. «Sono stato separato dalla mia famiglia e
dai miei parenti due volte. A nove anni a Gaza, perché volevo vivere con
i miei cugini e zii e non volevo ritornare in Libia, ma non era
possibile perché mio padre lavorava alle Nazioni Unite come traduttore.
La seconda volta è stato quando ho dovuto lasciare i miei genitori e i
miei sette fratelli per trasferirmi ad Istanbul, cinque anni fa,
per aiutare l’economia della famiglia, ma a causa della precarietà
economica e della difficoltà di ottenere il visto d’ingresso ci sentiamo
e vediamo via Skype». E aggiunge: «Mi sento come se avessi vissuto due vite separate. Sono uno straniero ovunque “fuori posto”.
Ciò che mi rende felice della mia nuova vita è la possibilità di
incontrare persone di diversi Paesi e culture. Ciò che mi rende una
persona migliore è poter aiutare, come sto già facendo, i rifugiati
siriani che arrivano in Turchia».
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