Vita e morte dell’ebreo jihadista





Abrivado è tutto fuor­ché un ghetto. Si tratta di un comu­nis­simo quar­tiere resi­den­ziale di una cit­ta­dina del sud della Fran­cia che chiun­que farebbe fatica a iden­ti­fi­care, New York Times alla mano, come «la capi­tale del jiha­di­smo occi­den­tale». Eppure, è da que­ste vil­lette con giar­dini e fiori pro­fu­mati, case basse con il tetto spio­vente a mat­toni rossi tipici della Lan­gue­doc, muri di un ripo­sante rosa pal­lido alle porte del cen­tro sto­rico di Lunel — un pae­sone di 25 mila abi­tanti a un passo dalla tri­ste­mente nota Aigues-Mortes dove nella notte fra il 16 e il 17 ago­sto 1893 diversi lavo­ra­tori ita­liani impie­gati nelle saline furono mas­sa­crati dai loro col­le­ghi fran­cesi in uno dei peg­giori epi­sodi di raz­zi­smo della sto­ria della nostra emi­gra­zione, e non da una ban­lieue calda della cin­tura pari­gina o mar­si­gliese — che è par­tito il più alto con­tin­gente di “foreign fighters” arruo­lati dall’Isis per la guerra santa in Iraq e Siria: almeno venti gio­vani, sei dei quali sicu­ra­mente già deceduti.
Raphaël Amar era uno di loro. 22 anni, studi in un liceo e iscritto alla Scuola di Inge­gne­ria pri­vata di Mont­pel­lier, appas­sio­nato di scac­chi e di gio­chi di ruolo, un talento per la chi­tarra elet­trica, è par­tito per un col­lo­quio di lavoro e per soste­nere il suo lavoro di fine studi a Parigi e non è più tor­nato. E’ morto in Siria dopo appena tre mesi, arruo­lato in una guerra che non gli appar­te­neva dopo essersi con­ver­tito a una reli­gione che non era la sua e che rende il suo caso del tutto ori­gi­nale. Lau­rent Amar di ori­gine ebrea ma laico (sua moglie è cat­to­lica), è il padre di Raphaël e oggi rac­conta che, quando il figlio ha deciso di con­ver­tirsi all’Islam, in nome del lai­ci­smo nel quale sono sem­pre vis­suti e con cui hanno edu­cato Raphaël, hanno cer­cato di capire, inter­pre­tando la sua svolta come una «ricerca di spi­ri­tua­lità da parte di un ragazzo sen­si­bile, aperto al mondo e impegnato».
Pasto­rale fran­cese
Invece, come il Sey­mour Levov di Pasto­rale ame­ri­cana di Phi­lip Roth, si sono ritro­vati la guerra in casa in men che non si dica. Lau­rent ha pre­sen­tato una denun­cia con­tro ignoti per­ché pensa che sia neces­sa­rio «capire» come sia stato pos­si­bile «supe­rare la bar­riera» che separa l’adesione a una reli­gione dal met­tere in gioco la pro­pria vita. Non fa nomi ma si intui­sce quali siano i suoi ber­sa­gli prin­ci­pali: «La cosa peg­giore — spiega — è che nes­suno, dalla moschea e dal gruppo Tabligh che Raphaël fre­quen­tava, ha pen­sato di avver­tirci». E lo stesso è acca­duto per gli altri ragazzi par­titi per la Siria.
Il caso di Raphaël non è unico a Lunel, nel senso che molti musul­mani par­titi per la Siria lo hanno fatto insieme alle pro­prie mogli e in molti casi si tratta di con­ver­sioni tar­dive: non sono nate in fami­glie musul­mane, ma lo sono diven­tate in seguito. Secondo il padre di Raphaël, i gruppi Tabligh hanno delle respon­sa­bi­lità ogget­tive a Lunel per­ché, pur pro­fes­sando il paci­fi­smo, pro­pon­gono una let­tura let­te­rale del Corano e spin­gono i gio­vani alla Umma, verso la Siria, per ragioni uma­ni­ta­rie, ma pun­tando sull’odio verso Al Assad, il grande nemico dei musul­mani sciiti di Fran­cia.
L’avvocata Kha­dija Aou­dia, che lavora a Nîmes e che si è occu­pata dei diritti dei gio­vani accu­sati di ter­ro­ri­smo, non la pensa allo stesso modo e sulla que­stione di Lunel ha le idee chiare: è a Nîmes che secondo lei risiede il noc­ciolo duro della radi­ca­liz­za­zione. Lunel non è quindi un cen­tro pro­pul­sore, e men che meno la moschea El Baraka, dove alcuni gio­vani anda­vano a pre­gare, che è di culto Tabligh, dun­que fon­da­men­tal­mente apo­li­tico, e che, come la mag­gior parte delle moschee di Fran­cia, è ben con­trol­lata dai ser­vizi segreti, gra­zie a rap­porti con­ti­nui, segna­la­zioni, infiltrazioni.
È piut­to­sto in pri­gione che alcuni gio­vani si radi­ca­liz­zano, per que­sto Kha­dija Aou­dia si batte affin­ché alcuni reati ven­gano depe­na­liz­zati, per­ché, dice, «che senso ha dare dicias­sette anni ad un ragazzo diciot­tenne che ha fatto il palo ad una rapina quando la pena mas­sima per stu­pro è di otto anni? Che cosa farà que­sto ragazzo in pri­gione? Si tro­verà in un car­cere sovraf­fol­lato e sarà facile preda di radi­ca­liz­za­zioni». La rispo­sta dello stato fran­cese, secondo l’avvocato, è stata esclu­si­va­mente di natura penale quando invece sarebbe dovuta essere culturale.
«Pen­siamo alle nuove leggi che oggi si appli­cano in Fran­cia: si è creato un reato che dà fino a dieci anni di reclu­sione ai cit­ta­dini fran­cesi che vanno in Siria. Ma chi può dire real­mente che cosa vanno a fare in Siria? Dove sono le prove che hanno com­piuto atti ter­ro­ri­stici? In una demo­cra­zia dove c’è il diritto di spo­sta­mento, tale reato è privo di qual­siasi senso giu­ri­dico. Le per­sone ven­gono poi messe in iso­la­mento, senza pos­si­bi­lità di con­tatto. Quando usci­ranno come si pensa rea­gi­ranno nei con­fronti della Fran­cia? Esem­pio para­dos­sale: un fran­cese che volesse andare in Siria ad aiu­tare una Ong oggi rischia fino a dieci anni di car­cere. Lo sapete che cosa com­por­te­ranno que­ste deci­sioni? Che pre­sto avremo infil­tra­zioni ter­ro­ri­sti­che anche nelle Ong, anzi a leg­gere alcuni rap­porti dei ser­vizi segreti que­ste infil­tra­zioni sono già all’ordine del giorno».
Vista la para­bola degli atten­ta­tori di Char­lie Hebdo, i fra­telli Koua­chi, l’analisi dell’avvocato pare esatta, ma non rie­sce a rispon­dere al per­ché un gio­vane di buona fami­glia, di radici ebrai­che e cul­tura pro­fon­da­mente laica come Raphaël Amar sia potuto finire in que­sto modo e quale males­sere sociale covi in seno alla società fran­cese e forse nel resto dell’Occidente ai tempi della “società liquida” stu­diata da Zyg­munt Bau­man, in cui il fai-da-te dell’identità può pro­durre ibridi impen­sa­bili. Non che quanto detto da Aou­dia non c’entri: Raphaël si era con­ver­tito gra­zie alla fre­quen­ta­zione di una cono­scenza del liceo, che aveva abbrac­ciato l’Islam durante i due anni in cui era stato detenuto.
Pro­se­li­ti­smo in car­cere
Quando aveva rac­con­tato il loro re-incontro ai geni­tori, Raphaël aveva spie­gato che si era messo a pian­gere alle parole dell’amico per­ché era stato molto toc­cato dalla sua sto­ria. A Mont­pel­lier fre­quen­tava una moschea a La Pail­lade, uno dei quar­tieri più dif­fi­cili della città ma, secondo il padre, «aveva con­ti­nuato a fre­quen­tare gli amici di prima, aveva tanti hob­bies, era molto impe­gnato a stu­diare e certo non era osses­sio­nato dalla reli­gione». Inol­tre, «a casa aveva buoni rap­porti con noi, discu­te­vamo molto della sua scelta e pure di poli­tica, spesso era anche pronto a rico­no­scere i pro­pri errori».
I geni­tori ave­vano comin­ciato a pre­oc­cu­parsi solo quando aveva smesso di suo­nare la chi­tarra e aveva lasciato la fidan­zata, sua madre era andata a par­lare con l’imam di Mont­pel­lier per capire cosa stesse acca­dendo al figlio, per­ché «ci era­vamo accorti che comin­ciava ad avere atteg­gia­menti di sepa­ra­zione e i suoi discorsi erano sem­pre più comu­ni­ta­ri­sti e a volte mostrava pre­giu­dizi nei con­fronti della comu­nità ebraica, come se fosse un gruppo di potere pronta a con­qui­stare il mondo». «Alla fine, mi ero reso conto che i discorsi di mio figlio erano sem­pre più basati su un’interpretazione dog­ma­tica del Corano», spiega Lau­rent. Fin­ché, dopo una vacanza in Irlanda, Raphaël se n’era andato nove mesi in Bah­rein per ter­mi­nare l’ultimo anno di stu­dio. «Gli amici di mio figlio mi hanno rac­con­tato che in que­sto periodo si era un po’ allon­ta­nato da loro, aveva fatto nuove cono­scenze e fre­quen­tato una ragazza».
Poi, la par­tenza per la Siria. Secondo Lau­rent, Raphaël dav­vero pen­sava di aiu­tare la popo­la­zione, non aveva asso­lu­ta­mente idea della situa­zione e certo era lon­tana in lui l’ipotesi di una “guerra santa” con­tro l’occidente. Per i primi tre mesi in effetti, stando sem­pre alla rico­stru­zione di suo padre, Raphaël non è finito in un campo d’addestramento dell’Isis: ha vis­suto in un vil­lag­gio insieme al gruppo di Nîmes e di Lunel insieme al quale era par­tito, occu­pan­dosi della con­nes­sione inter­net e facendo volon­ta­riato, poi ha lavo­rato in un nego­zio d’informatica.
«Ci sen­ti­vamo rego­lar­mente via web e dopo un po’ ci siamo resi conto delle sue dif­fi­coltà. Spesso scop­piava a pian­gere con sua madre», rac­conta Lau­rent. I geni­tori a quel punto hanno capito che biso­gnava atti­varsi per ripor­tarlo indie­tro, pen­sano di andare in Tur­chia e «riu­sciamo a far­gli capire che siamo dispe­rati sapendo che lui è lì in peri­colo (la madre nel frat­tempo ha smesso di lavo­rare e ha pro­blemi di salute, ndr) e che, se dav­vero vuole essere un buon musul­mano, deve rispet­tare i pro­pri geni­tori e per­met­tere loro di rive­derlo». Ma era ormai troppo tardi e ora a Lau­rent Amar non rimane altro che chie­dere alla giu­sti­zia di far luce su come ven­gano con­ver­titi i ragazzi, quali siano i luo­ghi del pro­se­li­ti­smo e come avvenga l’educazione religiosa.
L’imam, l’antisemitismo e la destra
Il pre­si­dente della moschea e dell’Associazione musul­mana di Lunel, Lahou­cine Goumri, ha deciso di non rican­di­darsi dopo aver mini­miz­zato l’accaduto, soste­nendo che «si tratta di dieci per­sone su una comu­nità di sei­mila musul­mani» e che la moschea non poteva essere rite­nuta più respon­sa­bile dello Stato, visto che si trat­tava di cit­ta­dini fran­cesi. Goumri ha inol­tre para­go­nato la scelta dei ragazzi di Lunel di andare in Siria a quella degli ebrei che deci­dono di fare l’Aliyah, l’immigrazione verso Israele. Parole sco­mode, senza dub­bio, in un pae­sone di 25 mila abi­tanti dalle radici ebrai­che – la cit­ta­dina si vuole fon­data da ebrei di Gerico e già nell’alto Medioevo aveva un impor­tante cen­tro di studi ebraici — con una forte comu­nità musul­mana e dove le destre sono al governo e all’opposizione: il sin­daco Claude Arnauld, della Divers Droite (Dvd), ha vinto di misura il bal­lot­tag­gio con­tro il can­di­dato del Front Natio­nal, che da que­ste parti ha otte­nuto il 37% dei con­sensi (ma il par­tito del non voto ha rag­giunto il 49%).
Ma è stato il ten­ta­tivo di “difesa” e arroc­ca­mento isti­tu­zio­nale di Lunel a essere stato per lo meno con­fuso. Nel dicem­bre scorso, dopo che fu asso­dato come alcuni dei ragazzi par­titi dalla cit­ta­dina fos­sero dece­duti, il sin­daco e Lahou­cine Goumri indis­sero una con­fe­renza stampa con­giunta aperta al pub­blico. Si trat­tava del ten­ta­tivo di dare una rispo­sta forte, isti­tu­zio­nale, alla paura che atta­na­gliava le strade del pic­colo cen­tro della Lan­gue­doc e al tempo stesso di difen­dere la comu­nità dagli attac­chi e dalle mal­di­cenze esterne. Quando toccò a Goumri par­lare, accadde qual­cosa che forse avrebbe inte­res­sato Edward Said e che sarebbe entrato a far parte dei suoi aned­doti sulla per­si­stenza della cul­tura coloniale.
Per­sino il Midi Libre, il più letto quo­ti­diano locale che certo non ha evi­tato ste­reo­tipi e luo­ghi comuni sulla «jihad in minia­tura» (testuale espres­sione) di Lunel, ha infatti scritto che il sin­daco non si atten­deva certo «quelle» parole dal por­ta­voce della comu­nità isla­mica della città. E lo stesso Goumri aveva ini­ziato il suo discorso scu­san­dosi per non essersi pro­nun­ciato pub­bli­ca­mente prima sulla que­stione, ma «gli era stato detto di non par­lare». Il senso era chiaro: isti­tu­zioni repub­bli­cane e por­ta­voce uffi­ciale della comu­nità isla­mica con­ti­nua­vano a vederla in maniera oppo­sta e a rin­fac­ciarsi le respon­sa­bi­lità di quanto accaduto.
In un bar gestito da ita­liani di terza gene­ra­zione, alle porte dell’Abrivado, uno dei gestori si dichiara attratto dai Le Pen, «più il padre della figlia, però». Non a caso il giorno della grande mani­fe­sta­zione «je suis Char­lie», l’11 gen­naio scorso, la bionda Marine se n’è venuta da que­ste parti, a Gard, piut­to­sto che rischiare la con­te­sta­zione in piazza a Parigi. Pare che per­sino il gruppo che ha coop­tato Raphaël Amar pre­fe­ri­sca l’elezione di quest’ultima a Pre­si­dente della Repub­blica. In modo da com­pat­tare il fronte anti-occidentale, far rien­trare nel calif­fato gli isla­mici fran­cesi e spaz­zare via i dia­lo­ganti dell’Islam.
La falce e la luna
C’è una leg­genda fol­clo­ri­stica occi­tana a cui viene asso­ciato il nome della cit­ta­dina di Lunel e che può essere utile, oggi, a capire quello che sta suc­ce­dendo. Si narra che un tempo un gruppo di pesca­tori di anguille, che pro­li­fe­ra­vano nel canale cit­ta­dino, stanco e fru­strato dalla vora­cità degli ani­mali che distrug­ge­vano e ingo­ia­vano gli ami e parti delle lenze, decise di uti­liz­zare un nuovo metodo di pesca. Costrui­rono una sorta di cesto con le esche che, legato ad una corda, veniva fatto scen­dere nelle acque più pro­fonde del canale, dove le anguille ama­vano cer­care il cibo. Gli ani­mali rima­ne­vano poi intrap­po­lati lì den­tro e i pesca­tori pote­vano tran­quil­la­mente ripor­tarli in super­fi­cie. Poi­ché però è risa­puto come le anguille amino uscire a man­giare soprat­tutto nelle notti senza luna, il caso volle che, nei giorni suc­ces­sivi all’invenzione dei pesca­tori, il cielo fosse sem­pre oscu­rato da nubi e la pesca a Lunel si rive­lasse par­ti­co­lar­mente pro­pi­zia. Fu la mali­gnità degli abi­tanti dei paesi vicini a insi­nuare che i cit­ta­dini di Lunel aves­sero di pro­po­sito oscu­rato la luna, ed ecco che il loro nome in occi­tano «pesca­luna» ricorda pro­prio que­sto epi­so­dio, una sorta di voluta discesa nelle tene­bre per pro­gre­dire lon­tano dalla luce.
Il sin­daco Claude Arnauld ha ricor­dato la vec­chia leg­genda nel 2006, quando è stata inau­gu­rata in una piazza cit­ta­dina un’opera dell’artista BenK dedi­cata al Pesca­luna, una sta­tua lunga e sot­tile che ricorda alcune scul­ture di Gia­co­metti. E certo oggi fa effetto, alla luce di quanto acca­duto, vedere la falce di luna sim­bolo della città su tutti i docu­menti e i monu­menti uffi­ciali, così simile ad una delle icone dell’islam.

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