Massimo Ottolenghi, : Partigiani di oggi
Ha Keillah
Intervista a Massimo Ottolengi e
Cesare Alvazzi Del Frate
L’avvocato Massimo Ottolenghi, (M), che compie cento anni
a maggio, ci apre la porta personalmente. Abbiamo raggiunto la
sua abitazione, ai piedi della collina, solo salendo una
lunghissima scalinata nel giardino. (Forse salire ogni giorno
decine di gradini - penso - serve a mantenersi giovani!). Con me
(D) ci sono Cesare Alvazzi Del Frate di 89 anni (C)
ed Elena Ottolenghi Vita Finzi. Massimo Ottolenghi, militante
GL, ha operato soprattutto a Torino e in val di Lanzo. Cesare
Alvazzi, partigiano con gli Autonomi, ha combattuto in val di
Susa e val Chisone.
D:
Come avete avuto i primi contatti con l’antifascismo?
M:
Tramite dei vasetti di miele. Avevo 14 anni nel
’29, e in vacanza venivo qui nella vecchia casa di mia nonna,
che si chiamava Allegra perché nata nel 1848 subito dopo la
liberazione dei ghetti. Avevo notato che i vasetti di miele del
dottor Molinari di Cavoretto che qualcuno portava a mia nonna
erano avvolti in fogli di carta da minuta dattiloscritti che mia
nonna piegava accuratamente e chiudeva in un armadio nella sala
del biliardo, fogli che mio padre di tanto in tanto portava via.
Incuriosito, spiando dentro all’armadio ho scoperto che si
trattava di propaganda antifascista. Molinari aveva creato il
primo gruppo di cospirazione antifascista. Del gruppo, a
struttura massonica, facevano parte quasi esclusivamente
giuristi: gli avvocati Porrone (mio zio), Passoni, Libuà,
Roberto di Alba, Rita, l’on. Soleri, il magistrato Domenico
Riccardo Peretti Griva, il prof. Angela (padre di Piero), i
giudici Neri di Torino e Zucchi di Bologna. Il gruppo aveva
figliato, e si erano formati gruppi analoghi a Milano, Savona,
Roma, Bologna. Alcuni di questi cospiratori sono stati arrestati
e mandati al confino, ma non tutti, perché nel ’29, anno di
votazioni per la legalizzazione del fascismo, il Regime non
voleva che l’opinione pubblica si accorgesse che in Italia c’era
una cospirazione aggiuntiva oltre a quella dei comunisti. Queste
vicende sono contenute anche in un nuovo libro di memorie che
sto scrivendo con l’aiuto dell’avvocato Alessandro Re. Spero di
finirlo prima di crepare!
C:
Io sono molto più giovane di Massimo, nel ’29
avevo solo tre anni! Per me la scoperta dell’antifascismo
militante, anni dopo, è dovuta ad uno scherzo cretino. Da
ragazzi, come tutti, eravamo obbligati a partecipare ad attività
sportive organizzate dal Partito Fascista. Ero entrato in un
gruppo alpinistico guidato da Buffa di Perrero, che ci insegnava
i rudimenti dell’arrampicata. Tutti irrigiditi sull’attenti,
faccio uno scherzo ad un compagno davanti a me, dandogli una
ginocchiata che lo fa cadere. Questo si ferisce anche. Ci
rimango male. Il ragazzo ferito era Paolo Gobetti. Il giorno
dopo vado a trovarlo a casa sua, dove stupito scopro un vero
santuario di libri (dove ora c’è il Centro Studi Piero Gobetti,
in via Fabro 6), e conosco la mamma di Paolo, Ada, donna
meravigliosa. Il fatto di essere nato in una famiglia
antifascista e l’amicizia con Paolo e Ada Gobetti per me sono
stati alla base della mia formazione.
M:
Posso dire che ho respirato un’atmosfera di
opposizione al fascismo fin dall’infanzia. I miei compagni di
ginnasio al D’Azeglio erano Emanuele Artom ed Oreste Pajetta
(cugino di Giancarlo), e, tra i “grandi” del liceo, Leone
Ginzburg, Franco Antonicelli, Vittorio Foa, che nel ’34
sarebbero stati arrestati con Sion Segre Amar. Giancarlo
Pajetta, di un’altra classe, aveva fatto una vignetta sul
giornalino scolastico, dove Mussolini era rappresentato nel
girone infernale dei tiranni, con un diavolo che gli inforcava
il sedere. Apriti cielo. Perquisizione della milizia, grane a
non finire per il professor Augusto Monti, anche lui coraggioso
antifascista.
D: Quando vi siete resi conto personalmente della vera natura
del nazifascismo?
C:
Sotto il fascismo le informazioni erano tutte
filtrate dalla censura, e sapevamo solo ciò che voleva il
Regime.
M:
Nel 1937, dopo aver depositato la mia tesi di
laurea, sono andato in viaggio turistico in Austria con amici
(gli altri paesi ci erano proibiti, perché eravamo in età di
leva). Era il periodo delle minacce di Anschluss da parte
di Hitler, che intendeva annettere l’Austria alla Germania.
Superato il confine del Brennero presidiato da reparti di alpini
italiani, a Klagenfurt scopriamo che soldati in divisa austriaca
parlano napoletano… Entrati in un negozio di frutta, abbordiamo
una bella ragazza vestita col tipico costume austriaco, e questa
ci apostrofa con un “Sevi bin maleducà!”. Era di Torino, moglie
di un ufficiale italiano… A Vienna, davanti alla cattedrale di
Santo Stefano, d’improvviso ci troviamo nel mezzo di una
sparatoria. Ci buttiamo a terra. Erano le camicie brune naziste
che facevano una “dimostrazione politica”: ferendo diversi
passanti, saccheggiando negozi di ebrei avevano improvvisato un
vero e proprio pogrom. Tornato in Italia, racconto
preoccupato tutto ad amici e parenti, che non mi credono e mi
trattano come nevrotico. “Mussolini - mi dicono - protegge gli
ebrei!” L’Anschluss con la Germania sarebbe avvenuto dopo
pochi mesi, e l’anno dopo sarebbero state promulgate in Italia
le leggi razziali.
D: Quali sono state le vostre prime azioni di opposizione al
fascismo?
C:
Dopo l’8 settembre del ’43 (avevo 17 anni) ho
iniziato cancellando le scritte fasciste dai muri, quindi, per
le prime brigate partigiane che si stavano formando, ho iniziato
a raccogliere armi ed esplosivi. È così che ci ho rimesso un po’
di dita della mano. Una volta guarito, a giugno, mio padre
accompagnandomi in montagna, si ferma un attimo e mi dice: “Se
avessi qualche anno di meno e non avessi una famiglia da
mantenere verrei con te”. Non mi raccomanda di fare attenzione,
di essere prudente, di non fare sciocchezze, ma mi dice una cosa
terribile: “Se incontri tuo cugino repubblichino, figlio di mia
sorella, sparagli”. Sono salito in montagna allo sbaraglio, ma
ho avuto la fortuna di incontrare il comandante Marcellin che
operava in quel di Sestriere, e mi sono unito alle sue
formazioni autonome. Sporadicamente ho anche collaborato con Ada
Gobetti e con i partigiani di Giustizia e Libertà.
M:
Molti anni prima, una mia azione di
opposizione al fascismo è stata una ribellione morale. Al
ginnasio durante le lezioni di educazione fisica il mio compagno
di banco Emanuele Artom era oggetto di continuo scherno da parte
del professore camicia nera, perché, a causa della sua
gracilità, Emanuele non riusciva a salire le pertiche. Dai e
ridai, mi sono stufato di assistere a queste continue
umiliazioni e ho deciso di non frequentare più quelle lezioni.
Il risultato? Sono stato bocciato, perché in educazione fisica
non si poteva rimediare a ottobre. Trasferitomi a Cuneo per
prepararmi all’esame di licenza ginnasiale, le mie cugine Segre
di cui ero ospite erano docenti o studentesse di materie
letterarie e scientifiche, ed erano amiche di Duccio Galimberti,
Dante Livio Bianco, Sandro Delmastro e Marcello Soleri, tutti
antifascisti convinti. Alcuni di questi sarebbero poi caduti
nella Resistenza. Fin da ragazzo, vedi che ho vissuto in
ambiente antifascista.
D: Molti degli antifascisti che avete nominato hanno nomi
ebraici. Prima del ’38 gli ebrei erano tutti antifascisti?
M:
Non tutti, ma la maggioranza. Dopo
l’arresto di Sion Segre Amar e Mario Levi del ’34 si è diffuso,
in ambito fascista, un antisemitismo strisciante. Tra gli ebrei
italiani effettivamente l’antifascismo era abbastanza diffuso.
Per dimostrare la lealtà degli ebrei al Regime Ettore Ovazza,
fascista della prima ora, ha fondato il giornale La Nostra
Bandiera. Le leggi razziali del ’38 avrebbero vanificato la
sua illusione, e nel ’43 sarebbe finito tragicamente con la
famiglia, ad opera dei nazisti.
C:
Fascismo ed ebraismo sono incompatibili per
natura: tradizionalmente in ambito rabbinico è cultura di
discussione, di interpretazioni diverse della Legge che vengono
accolte a maggioranza, senza escludere i pareri minoritari.
M:
Quando salivo sul tram N°1 per andare
all’Università (era un tram che toccava le principali facoltà di
Torino) alle 8 e mezzo vi trovavo un sacco di professori ebrei
antifascisti: mio padre, Giuseppe Levi anatomista e padre di
Natalia, Florio Foa, Piperno di chimica, Fubini di analisi
matematica. L’ebraismo è cultura della Legge. Cultura
egualitaria, cultura della vita, tradizionalmente contraria ai
soprusi e alla violenza, mentre il fascismo impone la legge del
più forte, ed esalta il culto della morte.
D: Cultura della Legge.
M:
Non è casuale che padri di Leggi e Dichiarazioni
Universali siano stati ebrei.
Alla
fine del ‘700 Giuseppe Salvador Ottolenghi, detto “Nasino”, un
ebreo di Acqui, partecipò a Parigi alla stesura della
dichiarazione dei Diritti dell’Uomo durante la Rivoluzione
Francese. L’ebreo austriaco Hans Kelsen fu uno dei fondatori del
diritto internazionale ed europeo. Eugenio Colorni scrisse, con
Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi e la collaborazione di Ursula
Hirschmann, il documento base del
federalismo europeo:
il Manifesto per un'Europa Libera e Unita, meglio conosciuto
come
Manifesto di Ventotene.
Umberto Terracini fu uno dei padri della Costituzione della
Repubblica Italiana, approvata nel 1947. René Cassin, ebreo
francese premio Nobel per la pace, fu tra i promotori e
redattori della
Dichiarazione Universale dei Diritti
dell’Uomo, approvata dalle Nazioni Unite nel
1948.
D: In che modo la vostra esperienza di partigiani ha influito
sulla vostra vita professionale?
C:
Dopo l’8 settembre del ‘43 mio padre, per
sottrarmi all’obbligo di leva, mi aveva fatto arruolare come
elettrotecnico nelle Ferrovie dello Stato, dove mi dovevo
occupare della manutenzione della rete degli altoparlanti della
stazione di Porta Nuova. Di lì andavo alla stazione di Chivasso,
dove distribuivo, nella sala d’aspetto vuota di passeggeri,
decine di manifestini antifascisti, che mostravano ai
viaggiatori del treno successivo che esisteva un’opposizione al
Regime.
Di
professione chimico, sono stato nel dopoguerra dirigente alla
CEAT. Sono entrato che c’erano 350 dipendenti, e ho lasciato lo
stabilimento che ne aveva 1350, avendone assunti 1000. La mia
esperienza da elettricista prima e da partigiano poi mi ha
insegnato a capire le esigenze e le sofferenze di persone meno
istruite e più povere di me, ed il migliore complimento che anni
dopo mi sono sentito formulare dai dipendenti e dai sindacalisti
è stato che io ero stato il direttore “meno peggio” che avevano
avuto. Il presidente della CEAT Virginio Tedeschi, benché
convertito, è stato il primo a far avvicinare me, non ebreo,
all’ebraismo. Lo considero il mio secondo padre, come considero
Ada Gobetti la mia seconda madre. Virginio si era convertito per
pura convenienza… Ha sposato una Bruni, ed è avo (putativo)
della famosa Carlà. Mi diceva: “Dottore, non lasci entrare mio
figlio Alberto negli stabilimenti, che non capisce niente. Vedrà
che quando me ne andrò io la CEAT andrà in rovina!” Ed
effettivamente è stato così. Appena Virginio è morto, Alberto
gli subentra e mi chiama nel suo ufficio. “Alvazzi - mi dice -
lei non è abbastanza anti-operaio!” “Lo considero una medaglia”
gli rispondo io. Poco dopo mi licenzio dalla CEAT, appoggiato
anche dai sindacati.
M:
Ho fatto l’avvocato, e durante la Resistenza ho
svolto difficili trattative coi sindaci, con il comando dei
Carabinieri e coi religiosi delle valli di Lanzo per ottenere da
ciascuno di loro documenti falsi, preavvisi di cattura e rifugi
per gli ebrei nascosti. Queste vicende sono narrate nel mio
libro Per un pezzo di patria. Le valli di Lanzo, presidio
di decine di partigiani ebrei, sono state trasformate in una
specie di “repubblica libera”, rifugio di ebrei provenienti
anche da altre regioni. Nella mia vita professionale successiva
sono stato coinvolto nelle trattative per la liberazione di
Carla Ovazza, parente della famiglia Agnelli, rapita dalle
Brigate Rosse nel 1975. Trattative molto delicate. Le BR avevano
chiesto, per il riscatto, una grossa somma, che con grande
coraggio Sion Segre Amar ha voluto portare personalmente in una
notte di fitta nebbia, nonostante glielo avessi sconsigliato
perché anch’egli avrebbe potuto essere sequestrato. Carla Ovazza
è stata liberata.
D: La frase terribile che ha pronunciato tuo padre, Cesare, a
proposito di tuo cugino, darebbe ragione a chi sostiene che la
Resistenza è stata una guerra civile…
C:
Non è stata una guerra civile, ma la guerra di
liberazione di un popolo contro l’invasore e contro la tirannia.
Non a caso i repubblichini cantavano “le donne non ci vogliono
più bene, perché portiamo la camicia nera…”. Il popolo era dalla
nostra parte, e di questo ho avuto la certezza quando,
imprigionato all’Hotel Sitea all’inizio del ‘45, nel cortile
c’erano le donne che battevano i tappeti che mi salutavano, ed
il vetraio che mi ha detto in piemontese, sempre dalla finestra:
“Sta tranquillo, gli diamo un calcio in culo e li mandiamo via
tutti !” Chi glie lo faceva fare di rischiare la pelle per darmi
solidarietà?
Intervista di David Terracini
Massimo Ottolenghi e Cesare
Alvazzi al Pian del Lot, 2013
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