Giorgio Gomel : Israele ,un futuro incerto
Un futuro incerto
di Giorgio Gomel
Gerusalemme, Kotel
(foto di Carla Rho) |
L’isteria nazionalista, l’istigazione alla
paura della minaccia esterna dell’Iran da un lato e
dell’estremismo islamista che disgrega e insanguina il
Medio Oriente dall’altro, il razzismo contro gli “arabi”
di Israele - il nemico interno, la quinta colonna -
hanno avuto la meglio nelle elezioni. La vittoria del
Likud (30 seggi, un quarto del Parlamento israeliano)
consente a Netanyahu di formare un governo con i due
partiti della destra annessionista, il nuovo partito
Kulanu, fuoruscito dal Likud e attento soprattutto alle
questioni della povertà e delle disuguaglianze
economico-sociali di cui soffrono strati vasti della
società, infine con uno o due dei partiti religiosi.
Sarebbe una coalizione simile a quella che governò
Israele fra il 2009 e il 2013, senza più il contrappeso
importante dei partiti centristi di Lapid e della Livni,
soprattutto della seconda che come negoziatrice con
l’Autorità palestinese e Ministro della Giustizia ha
cercato in questi due anni sia di condurre in porto o
almeno di salvare la trattativa di pace sia di bloccare
la legislazione sullo “stato-nazione” mirante a
subordinare le norme della democrazia all’ebraicità
dello stato. Anche per questo sul finire del 2014
Netanyahu aveva estromesso i due partiti dal governo e
portato il paese in modo che sembrava avventuristico
alle elezioni anticipate. Elezioni che sono state
dominate dal Primo ministro uscente, segnate da un quasi
plebiscito sul suo conto. Elezioni che Netanyahu ha
vinto, con la sua abilità tattica, contro sondaggi che
sembravano testimoniare un umore diffuso nel paese di
rigetto di un uomo che da troppo tempo domina l’agone
politico e che solo nell’ultimo mese aveva inasprito in
modo distruttivo i rapporti con l’Amministrazione
americana e acuito il pericoloso isolamento di Israele
nel mondo; un isolamento dovuto anche ad un’ostinata
difesa dello status quo - l’occupazione della
Cisgiordania - sotto la pressione dei partiti di destra
e del movimento dei coloni, ormai 350.000, lì
insediatisi.
Negli ultimi giorni della campagna
Netanyahu ha affermato di respingere la soluzione “a due
stati” - la nascita di uno stato palestinese sovrano e
in rapporti di buon vicinato con Israele, con confini
vicini a quelli del’ 67 e modifiche territoriali
concordate fra le parti, Gerusalemme, città unita ma
capitale dei due stati. Lo ha fatto contro i suoi stessi
impegni pubblici di sei anni fa e la logica del
negoziato con i palestinesi. Ha attaccato in modo
virulento gli elettori arabi e la Lista araba Unita, la
nuova formazione che ha unito i quattro piccoli partiti
arabi di Israele (Hadash, comunista, è in realtà un
partito arabo-ebraico). Lo slittamento a destra e l’uso
esagitato della retorica nazionalista gli hanno permesso
di sottrarre voti ai partiti della destra estrema (i
nazional-religiosi guidati da Bennet e i post-russi di
Liebermann) nonché allo Shas, il partito ultra-ortodosso
di origine “mizrachi”, degli ebrei cioè immigrati in
Israele dai paesi arabi.
Ma è importante riconoscere che vi è in
atto uno spostamento più profondo e permanente della
società israeliana verso posizioni nazionaliste via via
più chiuse. Fenomeno dovuto a trasformazioni
demografiche e sociali dello stesso Israele, ma anche ad
una reazione difensiva alla strada nichilista imboccata
dai palestinesi: la seconda intifada del 2001-05,
l’inutile guerriglia armata di Hamas dalla striscia di
Gaza, il rifiuto di Abu Mazen delle offerte ragionevoli
di compromesso avanzate dal governo Olmert-Livni nel
2008. Non sono solo i 350.00 coloni negli insediamenti
in Cisgiordania a rendere la soluzione “a due stati”
sempre più difficile sul terreno; è anche una vasta
parte della società - osserva Roger Cohen sul New York
Times del 18 marzo - “che ha rinunciato ai due stati e
preferisce i palestinesi invisibili dietro il muro”.
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Una parte imponente dell’opinione
pubblica in Israele pensa che la pace non sia davvero possibile,
guarda ai palestinesi come a un nemico ingrato e irriducibile ma
che si può contenere in un conflitto “a bassa intensità”. Eppure
la guerra distruttrice con Hamas dell’estate scorsa, con il
numero altissimo di vittime soprattutto civili e gli immani
costi materiali, dimostra che il costo della non-pace è enorme e
l’illusione che i palestinesi accettino per l’eternità un’
occupazione umiliante è pericolosa, con effetti nefasti per la
democrazia e la convivenza di ebrei ed arabi all’interno stesso
di Israele.
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