CISGIORDANIA : Autodeterminazione tra occupazione e colonizzazione israeliana: MAPPE, BIBLIOGRAFIA, DATI


  Se avessi contemplato il volto della vittima


        E riflettuto, ti saresti ricordato di tua madre nella camera


        A gas, avresti buttato via le ragioni del fucile


        E avresti cambiato idea: non è così che si ritrova un’identità.


(Mahmoud Darwish)



In principio vennero i pionieri, i più fanatici e violenti o i più coraggiosi tra gli occupanti. Piazzarono i loro container e issarono le loro bandiere. Poi vennero i soldati a difendere la loro illegalità. Poi venne il governo israeliano a portare loro condutture e elettricità. Poi arrivarono muratori per costruire villette a schiera simili a fortini. Perché il popolo eletto ha bisogno di spazio ma anche di comfort. Infine aprirono grandi supermercati, piscine e locali pubblici. I coloni misero le tendine alle finestre delle loro casette e bagnarono le loro aiuole verdi scintillanti. La colonia illegale divenne un luogo normale

(Sara Montagnani, "Mal’aleh Adumin ovvero la banalità del male", per la rivista L'ospite ingrato)


Il territorio della Cisgiordania, nel cuore della Palestina storica, è solo per alcune porzioni amministrato dalle pur deboli autorità palestinesi.

Qui, dalla guerra del 1967 e poi con gli accordi di Oslo dei primi anni ’90, Israele occupa per rimanere (ecco allora la dizione di “Territori occupati”, occupati durante la guerra del 1967: Gerusalemme Est, lato già occupato dalla Giordania e che era area internazionale assieme al lato ovest nella Risoluzione ONU 181; le Alture del Golan; il Sinai, fino al trattato israelo-egiziano di Camp David 1978; la Striscia di Gaza, fino al 2005; e proprio la Cisgiordania).

La Cisgiordania - lo abbiamo visto nel momento storico - dagli Accordi di Oslo è suddivisa in tre aree, misura temporanea che sarebbe dovuta terminare alla fine degli anni ’90 82:

    Area A: all’Autorità Nazionale Palestinese (aree urbane);
    Area B: permane il ruolo delle forze israeliane di controllo della sicurezza dei territori (aree rurali), ma l'amministrazione è palestinese;
    Area C: sotto pieno controllo dello Stato di Israele, eccezion fatta per la popolazione civile palestinese.

La sola area C rappresenta il 60% di tutta la West Bank.



La Cisgiordania è in breve una regione della Palestina – separata fisicamente e politicamente dalla Striscia di Gaza – attraversata dal fiume scuro della colonizzazione israeliana, genitrice del regime di "apartheid" qui costituito nel ventesimo e ventunesimo secolo, come vedremo e come definito – tra gli altri – dall’allora Presidente dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, Miguel d’Escoto Brockmann 83.


I principali organismi internazionali hanno più volte richiamato l’articolo 49 della IV Convenzione di Ginevra per la protezione dei civili in tempo di guerra:


La Potenza occupante non potrà procedere al trasferimento di una parte della sua propria popolazione civile nel territorio da essa occupato.


Così, se per il Diritto internazionale è lecita l’annessione di un territorio a seguito di un conflitto, in assenza di un trattato di pace sono illegali tutti gli insediamenti di popolazione civile. Israele inoltre – quale forza occupante – dovrebbe garantire tutte le opportunità di una vita dignitosa per la popolazione civile palestinese.

In spregio ai più fondamentali diritti, la posizione di Israele è tale da non considerare applicabile la Convenzione di Ginevra per difetto di sovranità 84 dei Territori occupati, facendo di intere porzioni della Cisgiordania una terra d’occupazione militare a difesa di colonie civili in espansione.


Eppure, ancora, le colonie e quindi la presenza israeliana sono illegali: così la Corte Internazionale di Giustizia 85, così più volte il Consiglio di Sicurezza ONU (Risoluzioni 446 86, 452 87, 465 88, 471 89 e 476 90), così il Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite 91, così la Corte Penale Internazionale attraverso lo Statuto di Roma (art. 8, 2, b, viii), così il Comitato Internazionale della Croce Rossa 92, e così - di nuovo - il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nel 2011, attraverso una bozza di risoluzione sostenuta da 120 dei 192 membri dell’ONU, sulla quale è stato posto il veto degli Stati Uniti d’America.


L’illegalità della presenza israeliana in Cisgiordania e delle sue politiche non è argomento accademico, riservato agli studiosi del Diritto internazionale. Al contrario, l’illegalità - in regime di impunità - corrode la vita quotidiana dei palestinesi della West Bank e lo stesso diritto alla vita.


Israele occupa per rimanere, espande i propri insediamenti e avamposti oltre i "confini-di-pace", che mai ha deciso di segnare, e respinge i processi d’autodeterminazione palestinese.

Anche questa volta seguiremo una traccia tematica, affrontando le principali direttive del processo di colonizzazione: gli insediamenti civili e gli avamposti (illegali) dei coloni; la questione idrica, nella forma dell’occupazione delle falde e delle sorgenti d’acqua; l’occupazione e la restrizione all’accesso della terra coltivabile palestinese; il Muro, inteso come la rete di cemento che chiude i confini della Cisgiordania con Israele, ma anche parte della Cisgiordania con sé stessa; la violenza dei coloni verso la popolazione palestinese; la violenza del Governo di Israele attraverso detenzione e distruzioni.

I primi coloni civili israeliani si sono insediati in Cisgiordania a partire dal 1967, colonizzando porzioni allora minime di territorio, pur nell’illegalità di fronte alle più fondamentali norme del Diritto internazionale.
La gran parte degli insediamenti oggi esistenti (144 secondo gli ultimi dati aggiornati al 2010 93) sono sorti tuttavia nel decennio 1977-1987. Nel 1987 erano già 128, occupando un’area pari a poco più di 40 chilometri quadrati; nel 2005, in gran parte a causa del processo di espansione di insediamenti già esistenti, l’area colonizzata e autorizzata dai governi di Israele è cresciuta fino a 163,75 chilometri quadrati 94 di terra di Palestina (+296,78%!), 30 km2 in più della città di Torino e quasi quanto tutta Palermo.
La popolazione è cresciuta dai 169.200 del 1987 95 ai 518.974 del 2010 96, superando così la barriera del mezzo milione di coloni, per il 50,58% nel Governatorato di Gerusalemme (seguito da Ramallah – 18,57% e Betlemme – 10,83%).

Ma che cos’è un insediamento in Cisgiordania?
Una comunità chiusa di soli cittadini israeliani in terra palestinese, delimitata da strade e recinti, militarmente protetta, in alcuni casi affiancata da siti industriali (9).
Scegliere di vivere in una colonia israeliana, nel ventunesimo secolo, è prima di tutto una scelta ideologica. Tuttavia esiste una distinzione di grado tra:

    coloni “ideologici”, legati all’idea di una Eretz Israel (l’Israele biblica) e stanziati soprattutto nel governatorato di Nablus, oltre che a Hebron: qui, 24 insediamenti accerchiano la città fino a entrare dentro la Città Vecchia con 4 colonie israeliane – nei pressi del mercato arabo, rendendo difficilissimo il movimento delle merci proprio verso l’Old Suq 97 (650 esercizi commerciali palestinesi sono così stati chiusi su ordine militare e 700 per difficoltà logistiche e calo della domanda); proprio a Hebron, nel febbraio del 1994, il colono Baruch Kopel Goldstein massacrò 29 civili palestinesi 98 facendo oltre 140 feriti nella moschea principale durante un venerdì di preghiera;
    coloni “per interesse”, ovvero la classe medio-bassa israeliana e ebrei di altri paesi richiamati dalla politica fiscale agevolata 99 (regimi di tassazione, sussidi e prestiti) inventata dal Governo di Israele per chi sceglie di risiedere nei Territori Occupati.

Tuttavia, l’espansione dell’area occupata dagli insediamenti autorizzati dal Governo di Israele (da 40 a 160 chilometri quadrati in poco meno di vent’anni) si spiega anche attraverso un’altra realtà, quella degli avamposti (o outposts) collegati agli insediamenti madre.
Si tratta di colonie “minori” non autorizzate dal Governo, ma non per questo smantellate, e sorte soprattutto a cavallo della Seconda Intifada palestinese (1998-2002 100).
Lo stesso Governo di Israele, attraverso il Rapporto curato nel 2005 dall’allora capo della Procura penale di Stato – Tania Sasson – autodenunciò il collaborazionismo interno ai Dipartimenti e Ministeri governativi, in violazione della stessa legislazione israeliana, finalizzato a nascita e sviluppo degli avamposti attraverso finanziamenti e collegamenti al sistema dei servizi (acqua, luce, gas, etc.).
Eppure, il fallimento di quel rapporto – che denunciava l’illegalità degli outposts, rendendo così accettabile all’opinione pubblica israeliana la realtà degli insediamenti in Cisgiordania – fu sette anni più tardi denunciato dalla stessa Sasson in una lunga intervista 101: “Né Sharon né il suo successore Ehud Olmert – e certamente no Benjamin Netanyahu – hanno compiuto passi per smantellare questi avamposti o arrestare la silenziosa distribuzione di fondi governativi a questi indirizzati“.
Così, al contrario, gli avamposti sono divenuti parte dell’insediamento madre cui erano collegati, attraverso legalizzazioni a posteriori 102 (ciò ai fini della legislazione israeliana, rimanendo illegali per il diritto internazionale).

Certo, la Palestina occupata è - come visto sin qui - fatta di colonie israeliane, però militarmente protette: il che comporta la presenza dell’esercito sul territorio.
L’esercito israeliano è infatti in Palestina non solo con le sue 48 basi militari 103 (quasi 20 chilometri quadrati), ma anche attraverso la dichiarazione unilaterale di oltre 1.150 chilometri quadrati di terra quale “no-go zone”, soprattutto nella Valle del Giordano, corrispondenti pressoché a tutta la provincia di Livorno e poco meno di tutta Roma. Queste aree militari rappresentano una barriera, un “muro”, tra comunità palestinesi e colonizzatori ma sono anche lo strumento prodromico all’appropriazione della terra necessaria all’insediamento di una colonia 104.

Nell’area C della Cisgiordania Israele ha inoltre congelato - senza l’accordo palestinese 105 - 493,48 chilometri quadrati di terra 106 quali “Aree verdi”, più di tutta Venezia, riserve naturali sulle quali ricade il pieno controllo israeliano, e che per il 30% si sovrappongono alla “no-go zone”, area interdetta per ragioni militari.

La colonizzazione della West Bank si unisce così alla mancata contiguità tra questa e la Striscia di Gaza. La presenza e l’espansione degli insediamenti, anche attraverso la legalizzazione successiva di avamposti, nonché di aree militari e di "riserve naturali" designate unilateralmente, minano la realizzazione di un’entità nazionale palestinese, rendendo vuota la soluzione dei “due-Stati”.

Figura Palestina immaginata: un arcipelago di Frank Jacobs
Elaborazione unica e originale che risponde alla domanda "Cosa sarebbe la Cisgiordania se tutta la terra occupata da Israele fosse trasformata in mare?
  La Palestina occupata non è solo negli oltre 1.500 chilometri quadrati occupati dalle colonie israeliane e dal loro giardino militare, spazio grande quanto tutta la provincia di Milano: sono pure i campi produttivi, fertili, che stanno al di là dei confini di una colonia, soprattutto nella Valle del Giordano. Stiamo parlando di terreni coltivabili e coltivati da coloni israeliani per 101,22 chilometri quadrati 107, uno spazio grande quanto tutta Firenze.

            Sebbene la popolazione ebrea nei governatorati di Jericho e Tubas - dove si dispiega la Valle del Giordano - sia piuttosto contenuta (7.560 colonizzatori nel 2010 108), le colonie qui presenti occupano grandi appezzamenti di terreno il cui accesso viene negato ai 53.000 palestinesi residenti nella Valle, che di agricoltura vivrebbero. Sopravvivono, invece, di agricoltura, rischiando ogni giorno il lavoro e la vita per attraversare riserve naturali o aree militari israeliane (o la stessa cosa).


E’ questo il destino, ad esempio, dei 5.500 abitanti del villaggio palestinese di Al Jiftlik 109, nel nord della Valle del Giordano, Area C. Parte di loro ha resistito ai bombardamenti e alla deportazione durante e dopo la Guerra di occupazione dei sei giorni 110.

Il villaggio oggi è circondato ed isolato da tre insediamenti israeliani e dalla loro rete stradale; Argaman, Massu’a e Hamra sono sorti immediatamente dopo il 1967 e contano una popolazione complessiva che non supera le 500 unità (438 coloni israeliani). Il villaggio è inoltre spaccato e attraversato da basi militari, “no-go zone” e aree dichiarate riserve naturali.

I residenti di Al Jiftlik non sopravvivevano di agricoltura, quando prima degli israeliani lavoravano grandi appezzamenti di terra ed erano liberi di far pascolare il proprio bestiame e di far circolare i frutti del proprio lavoro nei mercati palestinesi.




La cartina di dettaglio sul villaggio palestinese è tratta da "The humanitarian impact on Palestinians of Israeli settlements and other infrastructure in the West Bank" (OCHA, 2007, pg. 107, traduzione propria)


Oggi, al contrario, mentre i quasi 500 colonizzatori israeliani beneficiano dei più basici servizi insieme a industriali sistemi d'irrigazione der i grandi campi coltivabili, appena un quarto dei palestinesi di Al Jiftlik è connesso alla rete elettrica e la rete idrica necessita di un costante lavoro di manutenzione basica 111.


Questo villaggio è solo un esempio dell’impatto dell’occupazione israeliana in terra palestinese. Vieppiù. Il 45% circa della terra agricola di Palestina è dedicata all’ulivo 112, albero che è figlio della tradizione contadina palestinese.

Per la cura dei "frutti" di questi alberi, e quindi della produzione di olive ed olio, i palestinesi si trovano stagionalmente e quotidianamente di fronte agli ostacoli dispiegati da Israele:

    per le piantagioni lontane dal Muro, ad esempio, 7.500 alberi di proprietà palestinese sono stati danneggiati o sradicati dai coloni israeliani 113 tra il gennaio e il settembre del 2011, in una realtà nella quale l’accesso alla propria terra è sorvegliato dalle autorità militari israeliane a protezione degli insediamenti confinanti;
    per quei villaggi, invece, che si trovano tra la linea di armistizio del 1949 (Green Line) e il tracciato fisico del Muro (che entra in Cisgiordania ad abbracciare gli insediamenti di “confine”), la realtà che si presenta sono le 66 porte lungo il Muro israeliano della Cisgiordania, per la cura dei campi e la raccolte delle olive; eppure, 44 “gate” sono aperti ai palestinesi solo durante la stagione della raccolta e nel 2011 il 42% dei visti per l’accesso alle proprie terre è stato respinto da Israele 114 (per ragioni di sicurezza o per contestate dimostrazioni del diritto di proprietà.


Questa pressione sulla terra, attraverso una colonizzazione che sostituisce contadini palestinesi con grandi proprietari terrieri israeliani (specie nella Valle del Giordano), ma anche attraverso gli ostacoli frapposti fra i piccoli appezzamenti palestinesi e il loro diritto al lavoro, stravolge l’ambiente, l’economia agricola palestinese e quindi la vita sociale dei cisgiordani.
   
A fianco ed assieme alla stretta delle autorità israeliane sulla popolazione civile palestinese, che allarma anche nel numero dei feriti nel 2012 (3.029) a seguito di repressione di manifestazioni di protesta 115, esiste un’altra violenza: quella dei coloni israeliani, “civili”, verso persone e cose.


                        I dati, da soli, non danno la gravità di questa dinamica 116. Eppure nel 2011, tre palestinesi sono rimasti uccisi e 183 feriti per mano dei coloni 117, “cittadini” israeliani impiantati in Cisgiordania. I danneggiamenti della proprietà sono aumentati del 32% nel 2011 rispetto al 2010, e di oltre il 144% rispetto al 2009, con circa 10.000 alberi da frutto di proprietà palestinese danneggiati o sradicati.

                        Nel 2012 i feriti sono stati 150 in 98 episodi di violenza contro palestinesi, oltre alle 268 violazioni e danneggiamenti alle proprietà private; 8.600 alberi da frutto sono stati vandalizzati 118.


                    La gravità di questa dinamica sta in due aspetti, che potremmo definire “costitutivi” da una parte e “rafforzativi” dall’altra, che si intrecciano.

                        gli aspetti costitutivi spiegano la natura delle aggressioni. Non si tratta di crimini comuni, ma di violenza privata, organizzata ed ideologica 119 propria di una Israele egemone in Palestina, con i suoi insediamenti, con le sue colonie (non a caso più intensa nei governatorati con insediamenti “ideologici”, Nablus e soprattutto Hebron).

                    Tale dinamica, paradossalmente, produce la via per l’infrazione della stessa legislazione israeliana (si pensi al più capitalista dei diritti, quello di proprietà): così, gran parte degli attacchi provengono da coloni residenti negli avamposti 120, illegali anche per Israele. A ogni pietra mossa contro gli avamposti, corrisponde un’azione di violenza contro i villaggi palestinesi: è il “cartellino del prezzo” (price tag 121) .

                    L’ideologia di una Palestina egemone come elemento costitutivo spiega anche l’indifferenza di fronte alle vittime degli attacchi, per metà bambini 122, donne e anziani in età superiore ai 70 anni 123. E’ quanto accade quotidianamente, ad esempio, ai bambini della scuola elementare di At Tuwani, nel sud di Hebron, minacciati e aggrediti fisicamente dai coloni nel loro percorso verso la scuola e allora scortati – con particolare ignavia, fino all’abbandono – dall’esercito israeliano 124.


                        gli aspetti rafforzativi, invece, sono quegli elementi che riproducono l’ambiente fertile alla violenza organizzata privata.

                        Si parla così di discriminazione assunta a sistema: la legislazione nazionale israeliana viene sistematicamente disattesa quando si tratta di proteggere i civili palestinesi 125 (la cui sicurezza è, per il Diritto internazionale, responsabilità della forza occupante - Israele), cui sono al contrario riservati ordini militari che non ammettono diritti certi. Diversamente, per ogni violazione alla sicurezza dei civili israeliani, i villaggi palestinesi sono oggetto di serrate campagne di rastrellamenti, anche notturni, fin dentro le case (due dati: oltre 4.000 operazioni di ricerca hanno significato più di 3.300 arresti di palestinesi in Cisgiordania nel 2008 126).

                    L’organizzazione israeliana per i diritti umani “Yesh Din” ha così monitorato, a scopo di ricerca, i risultati delle investigazioni del distretto di polizia di “Samaria e Giudea” su crimini di civili israeliani contro civili palestinesi, dal 2005 al 2010 127: delle 642 indagini, 539 si sono concluse e nella quasi totalità dei casi (488 = 90,54%) con le autorità israeliane incapaci a individuare una chiara responsabilità (per autore ignoto – 64,55% o per archiviazione delle indagini a causa della mancanza di prove o di pubblico interesse). Ciò, unito ai fallimenti della polizia israeliana nell’intervenire al compimento di aggressioni o danneggiamenti 128, risponde a una chiara volontà politica, e non a un problema di diritto o giurisprudenza.

                        Le leggi esistono, e così pure la consapevolezza da parte dei governi di Israele dell’impunità per la violenza dei coloni verso civili palestinesi, sondata dalle commissioni d’inchiesta Karp (nel 1981), Shamgar (nel 1994, a seguito del massacro compiuto dal colono Baruch Goldstein a Hebron) 129, e dal già discusso rapporto di Talia Sasson del 2005 130.


                        Il coappartenersi dei due aspetti (costitutivo e rafforzativo), ovvero la coesistenza di violenza ideologica contro i palestinesi e della debole volontà politica di combattere tale dinamica, produce negli insediamenti una profonda cultura dell’impunità: tutto è possibile, soprattutto l’illegale colonizzazione di terra palestinese nel ventunesimo secolo.

    A fianco della violenza “diffusa” dei coloni, fiancheggiata dal Governo di Israele, esistono altre due forme di violenza, praticate ora dalle istituzioni israeliane. Mettendo tra parentesi il più generale processo di colonizzazione della terra, violento per costituzione, vogliamo parlare della distruzione israeliana di strutture civili palestinesi in Cisgiordania e della detenzione amministrativa, con particolare riferimento alla persecuzione dei minori di anni 18 da parte della “giustizia” dello Stato di Israele.


Demolizioni


Nel 2011 Israele ha demolito, nella sola West Bank, 622 strutture civili palestinesi, tra cui 222 case, 170 rifugi per animali, 2 aule scolastiche e 2 moschee 131. La maggioranza di queste era in prossimità di insediamenti israeliani, e comunque nell’Area C della Cisgiordania creata nell’ambito degli accordi provvisori di Oslo del 1995.

Così, anche l’anno seguente: 540 strutture civili distrutte nel 2012, tra cui 165 case la cui demolizione ha prodotto 815 rifugiati, più della metà bambini 132.


Eppure già dal 1967 e fino al 1995 Israele ha applicato nei Territori occupati un regime di regolamentazione dello spazio edificabile per i palestinesi. Oggi, ogni costruzione nella sola Area C, ovvero nel 60% della Cisgiordania, necessita dell’autorizzazione da parte dell’Amministrazione Civile Israeliana (ICA), non essendo stato compiuto il passaggio di poteri all’Autorità Palestinese, congelando così la realtà al 1995.

Per i palestinesi, in breve, questo si traduce nell’impossibilità di costruire in circa il 70% dell’Area C 133, con il restante 30% di terra edificabile soggetta a procedura autorizzativa israeliana, con percentuali di autorizzazione che non superano il 6% 134.


Gli ostacoli posti da Israele allo sviluppo residenziale e infrastrutturale delle comunità palestinesi nell’Area C sono formali e sostanziali.

Il 70% dell’Area C è negato ai palestinesi perché occupato dagli insediamenti e sotto la giurisdizione civile dei “Consigli Regionali" e Locali, oppure perché area militare, riserva naturale o “zona cuscinetto”, tra il Muro e la Linea Verde.

Per il 30% dell’Area C, qualunque costruzione richiederebbe il superamento di una complessa procedura che prevede di dimostrare, tra le altre cose:

    il diritto al possesso della terra.
    Israele sa che la maggior parte della terra cisgiordana non è registrata e sa che il processo di registrazione è stato congelato proprio da Israele fin dai primi giorni dell’occupazione nel 1967 135. Il diritto di proprietà può in ogni modo essere dimostrato con una valida documentazione fiscale (per il pagamento delle imposte), ma la richiesta di costruzione deve essere allora sottoscritta da tutti i proprietari del terreno, in molti casi profughi o persone che hanno abbandonato la Palestina storica a seguito delle occupazioni israeliane;
    la coerenza della richiesta con un Piano Regolatore.
    Esistono due tipologie di piani regolatori per i palestinesi dell’Area C: i “Piani speciali” e i “Piani del Governo Mandatario”.
    Nel primo caso si tratta di un’invenzione israeliana: è all’interno dei confini dei piani speciali poco più dell’area già edificata, senza che siano previsti edifici, parchi o strade pubbliche; ciò che è fuori dalle linee di demarcazione è eventualmente soggetto a ordini di distruzione. Israele ha coperto appena l’1% dell’Area C con piani speciali, un 1% già in gran parte edificato 136. Nello stesso momento, gli insediamenti sono oggetto di piani dettagliati, a bassa densità abitativa, alla cui redazione partecipano democraticamente i Consigli Regionali e Locali dei coloni.
    Nel secondo caso, i Piani del Governo Mandatario, ovvero britannico, hanno oltre 70 anni e disegnano gran parte dell’Area C come territorio agricolo, permettendo tuttavia la costruzione di edifici residenziali non superiori a due piani per ciascun appezzamento. Israele, solo al crescere del processo di colonizzazione della terra con propri insediamenti, ha respinto gran parte delle richieste di costruzione perché arbitrariamente giudicate non coerenti con i Piani Regolatori del Governo Mandatario 137.

Cosa rimane ai palestinesi se non il diritto di costruire edifici civili nella propria terra, criminalizzata dalla legge israeliana?

Nonostante gli sforzi palestinesi, a una costruzione individuata come “illegale” l’ICA pone esecutivamente un ordine di fermo, per un periodo nel quale il proprietario può presentare la richiesta di costruzione. Il maggior numero delle richieste si hanno in questo contesto 138. Il 94% delle domande è tuttavia respinto 139 (media del periodo gennaio 2000- settembre del 2007). L’ordine di demolizione emesso dall’ICA diviene allora il passaggio conclusivo di un percorso già segnato.


Per l’Autorità Nazionale Palestinese c'è l’impossibilità sostanziale di amministrare un territorio, l’Area C, strategico per il futuro della Cisgiordania, perché non ancora densamente popolato rispetto alle Aree A e B, e che potrebbe quindi rispondere alla domanda di sviluppo della comunità. Formare medici e insegnanti quando non possono essere costruiti ospedali e scuole produce cioè un senso di impotenza. Le aspirazioni palestinesi, legittimamente riposte negli accordi provvisori di Oslo del 1995, si infrangono così dinanzi ai divieti a costruire posti da Israele, alle sue distruzioni, e di fronte all’occupazione coloniale di terra.


Per la popolazione civile palestinese, oggi, di più, la politica di compressione della libertà formale e sostanziale a costruire edifici e strutture pubbliche, e le demolizioni che ne conseguono, hanno impatti umanitari concreti.

La distruzione di una casa significa allontanamento dalla propria terra ed esposizione alla vulnerabilità economica. Il Centro di Consulenza Palestinese assieme alle ONG Save The Children e Welfare Association ha studiato come per i bambini di Gaza e della Cisgiordania la demolizione della propria casa equivalga a traumi psicologici multipli, con danni che persistono oltre sei mesi dopo l’evento traumatico 140: aggressività, depressione, difficoltà di concentrazione con conseguenti fallimenti scolastici, etc.


Servono alcuni dati a dare ancora la dimensione della violenza.

Dal gennaio 2007 al luglio 2012 Israele ha distrutto 417 unità abitative 141 in Cisgiordania per mancanza di permesso a costruire, lasciando senza casa oltre 2.500 persone, più della metà minori (1.261). A Gerusalemme Est, che non ricade nell’Area C e per la quale la procedura di demolizione è competenza non già dell’ICA ma del Ministero dell’Interno di Israele e della Municipalità di Gerusalemme, nello stesso periodo sono state distrutte altre 245 unità abitate da 1.204 palestinesi, 673 dei quali minori.

Nel 2013 Israele ha distrutto 35 case nell’area di Gerusalemme Est, 39 strutture commerciali, 24 costruzioni abbandonate, producendo un totale di 298 sfollati di cui 153 – più della metà – bambini 142. 33 delle 98 strutture demolite mancavano del permesso di costruzione in quanto nel Parco Nazionale del Monte Scopus, area così determinata da Israele il 15 novembre 2013 segnando un ulteriore chilometro quadrato di area non edificabile.

L’espansione degli insediamenti, e i piani di espansione di questi come l’area E1 dell’insediamento di Ma’ale Adumim fino a creare un’area contigua dalla città vecchia, mina presente e futuro delle comunità palestinesi di Gerusalemme Est, che convivono con ordini di demolizione delle proprie case e con la quotidiana erosione di terra coltivabile e per il pascolo 143.

Tutto senza contare le demolizioni “punitive”, nel ventunesimo secolo compiute da Israele tra l’ottobre del 2001 e il gennaio del 2005 (664 case che ospitavano 4.182 palestinesi 144), e le demolizioni per presunte ragioni militari (117 tra il 2004 e il 2011, ma oltre 5.000 nello stesso periodo nella Striscia di Gaza).


La detenzione amministrativa e il perseguimento dei minori


Israele può, secondo il proprio diritto 145 e in violazione di quello internazionale, sottoporre a detenzione qualsiasi persona per ordine di uno dei bracci militari del Governo; gli organi di giustizia, ovvero corti militari, valuteranno a posteriori la legittimità della misura.


La detenzione amministrativa è legittima secondo il Diritto internazionale: deve tuttavia essere “necessaria”, “proporzionata” e “appropriata” 146. Ciò significa che la minaccia alla sicurezza deve essere eccezionale al punto da utilizzare uno strumento straordinario.


Tutte le evidenze dimostrano che Israele utilizza, per adulti e minori, la detenzione amministrativa come misura preventiva non eccezionale né temporanea 147.

Ogni bambino con età superiore ai dodici anni può essere incarcerato, secondo l’Ordine Militare n. 1651, per supposte ragioni di “pubblica sicurezza”, una definizione che non delimita i confini dell’eccezionalità. Così, gli ordini di detenzione espongono tutti i palestinesi da dodici anni in su ad un sistema di internamento arbitrario e discrezionale 148, in quanto:

    L’ordine non può superare i sei mesi, eppure può essere prolungato senza restrizioni 149;
    In spregio del Diritto internazionale, l’ordine di detenzione amministrativa è sottoposto al giudizio di legittimità da una corte militare otto giorni dopo l’arresto, cosa diversa dai “pochi giorni” indicati dal Comitato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite (art. 9 par. 2) o dalle 24 ore indicate dal Comitato sui Diritti dei Bambini dell’ONU (paragrafo 83);
    Sebbene il giudizio possa essere appellato, l’imparzialità è compromessa dalla natura stessa della corte militare, composta da ufficiali militari, allora non indipendenti rispetto a chi aveva emesso l’originario ordine di detenzione;
    L’impossibilità di accedere alle prove che hanno condotto all’ordine di detenzione, perché classificate o perché spesso inesistenti, mina qualsiasi possibilità di legittima difesa 150.


E’ evidente che l’assenza di una giustizia minorile conduce i bambini e i giovani palestinesi a pagare il prezzo più alto della politica israeliana di difesa della propria occupazione, in mano a organi militari e ai loro abusi.

La sezione palestinese dell’organizzazione "Defence for Children", in un suo recente rapporto, ha testimoniato come l’arresto militare rappresenti un evento traumatico per il bambino: strappato dalla propria casa all’alba da soldati armati, legato e bendato, e condotto in strutture di detenzione senza che nulla gli sia spiegato. L’impossibilità di comunicare con un avvocato espone poi i minori a pressanti interrogatori, che terminano nel più dei casi con un’estorta confessione in ebraico da parte di bambini arabi.

I giorni di detenzione, inoltre, significano isolamento, violenza verbale e fisica, maltrattamenti sistematici 151 in strutture che non rispondono alle "Regole dell’Avana per la protezione dei giovani privati della loro libertà" (1990) e alle più generali norme del Diritto umanitario, come testimoniato dai 34 casi di studio proposti da Defence for Children 152.

Il diritto all’educazione dei minori è confinato in 2 ore a settimana 153, determinando significativi inviluppi nel processo di apprendimento, anche a causa della difficile gestione dei traumi multipli a seguito dell’arresto e dell’isolamento dalla propria famiglia (il 30% dei bambini non riceve visite dai propri familiari, in quanto a questi non è consentito raggiungere le strutture di detenzione in Israele 154).

Il diritto alla salute è altresì minacciato, a causa della non continuità - quando non dell’assenza - di controlli medici generali e specialistici.


I dati disponibili non sono molti, eppure dei 265 minori difesi dalla organizzazione non-governativa DCI-Palestina, sui circa 700 perseguitati dalla giustizia israeliana nel 2008, alla maggioranza veniva imputato il lancio di sassi (26,7%), reato per il quale la sentenza può arrivare fino a 20 anni di detenzione anche per i minori di 16 anni (per i quali la pena massima è ordinariamente di 12 mesi per i reati con pena detentiva inferiore ai 5 anni), in forza dell’Ordine militare 132.

Dal 2000 a oggi circa 7.000 minori palestinesi sono stati detenuti nelle carceri israeliane 155, perseguitati e sottoposti a maltrattamenti, taluni a seguito di ordine di detenzione amministrativa per minaccia alla “sicurezza nazionale”.

Nel 2012 Israele ha sottoposto a detenzione 193 minori, di cui 21 sotto i 16 anni, più dei 116 minori arrestati nel 2011 156.


Ben oltre i “diritti” di forza occupante, la violenza dello Stato di Israele, istituzionalizzata e raccolta nella rete dell’impunità (delle oltre 500 denunce di maltrattamenti e torture portate dinanzi al Ministero della giustizia di Israele tra il 2001 e il 2008 neppure una ha prodotto l’avvio di indagini 157, per dichiarate “prove insufficienti” 158) sta significando per intere generazioni di palestinesi maltrattamento, tortura, persecuzione e violazione del diritto a autodeterminare le proprie vite.
   




Abbiamo visto come Israele occupi terra palestinese per insediarvi proprie colonie, principalmente di popolamento, ma anche agricole, industriali e militari. All’interno di un’occupazione illegale con difetto di sovranità, le colonie hanno sempre bisogno di essere protette, collegate tra loro e con Israele, liberamente oltre la Green Line.

E’ così che Israele ha occupato le principali vie di comunicazione cisgiordane e costruito nuovi itinerari 159 per soli ebrei su terra occupata. La potenza occupante ha di fatto limitato la libertà di movimento dei palestinesi che nelle strade occupate trovano una barriera che isola un villaggio dall’altro, un mercato dall’altro, la propria casa dal luogo di lavoro, di studio, dagli ospedali: anche la strada è diventata un muro di confine.


Le strade cisgiordane, come la terra, per Israele sono spazio israeliano. Una delle arterie della West Bank, l’unica ad attraversare da nord a sud l’intera Cisgiordania, è la Strada Principale 60: un’arteria che, superata la Linea Verde di armistizio del ’49, in Israele mantiene nome e numero a voler dimostrare un’unità di territorio e realtà. (Così è pure per la Strada Principale 35).


Figura Arterie stradali (60 e 35) tra Israele e Cisgiordania occupata

La cartina con il dettaglio delle strade è tratta da "The humanitarian impact on Palestinians of Israeli settlements and other infrastructure in the West Bank" (OCHA, 2007, pg. 61, traduzione propria)


Attraversare la Cisgiordania verso Israele è un diritto riconosciuto dalle autorità israeliane agli israeliani; di contro, le libertà di movimento dei palestinesi all’interno del proprio territorio sono compresse.

Una strada può assumere così tre significati diversi: può essere un corridoio da e verso Israele; può essere una via di comunicazione tra insediamenti israeliani; è, soprattutto, una barriera che infrange la libertà di movimento del popolo di Palestina.


Cosa rimane ai palestinesi?

La rete di 1.661 chilometri 160 di strade a uso primario delle targhe israeliane è pressoché interdetta ai palestinesi, ma non del tutto e non per tutti i tratti stradali 161: per transitare lungo alcune principali vie di comunicazione della West Bank può bastare un permesso speciale (israeliano), necessario per non essere respinti o sottoposti a indagine ai 98 checkpoint fissi (al febbraio 2012, per veicoli e pedoni) e agli oltre 200 mobili (al marzo 2012) 162.

La complessità amministrativa della procedura per ottenere il permesso di transito, unita agli alti costi, scoraggia tuttavia i privati cittadini 163: nel 2005, appena il 7,4% delle targhe palestinesi poteva transitare nella rete stradale sorvegliata dalle Forze di Difesa Israeliane.


Del resto anche solo raggiungere o attraversare la rete stradale può essere impossibile, in presenza di ostacoli fisici posti da Israele nei punti di congiunzione con le strade locali (recinti artificiali e naturali, barriere di detriti e assi di metallo, blocchi di pietra, etc.): nel maggio 2012 erano 450 164, in linea con i 460 registrati cinque anni prima 165.


Ai palestinesi rimangono, certo, le strade locali-suburbane che implicano spesso percorsi più tortuosi, lunghi e insicuri per raggiungere luoghi già ben collegati dalle arterie principali. Ai palestinesi rimane pure la possibilità – già percorsa – di costruire proprie vie di comunicazione sotto quelle occupate e controllate da Israele 166.


Qualsiasi sia lo sforzo e qualsiasi siano le strategie di sopravvivenza in termini d’infrastrutture stradali, rimangono fermi i danni compiuti da Israele allo sviluppo palestinese della libertà di movimento, implicando tra l’altro:

    alti costi di spedizione per i prodotti palestinesi, in una realtà nella quale i prodotti israeliani hanno libero accesso non solo ai mercati di tutto il Mondo ma anche ai più vicini mercati palestinesi;
    ostacoli e complicazioni nell’accesso a servizi basici (salute ed educazione);
    limitazione di un'effettiva possibilità di autogoverno amministrativo da parte dei palestinesi, la cui comunità cisgiordana è frammentata in tante comunità isolate dalle reti stradali e accerchiata dagli insediamenti.

   







A partire dal 2002, Israele ha avviato la costruzione di una barriera lunga 708 chilometri, che separi la Cisgiordania dallo Stato ebraico, in risposta ad urgenze nazionali di “sicurezza”.

440 chilometri di muro sono già stati costruiti (62,10%) e oltre 50 sono in costruzione 167, attraverso vere e proprie colonne di cemento, ma anche recinti elettrificati, fil di ferro e fossi.

Il Muro segue il tracciato ridefinito nel 2006 dal Governo di Israele, e non la Linea Verde di armistizio del 1949, che separa Israele dalla Cisgiordania per 315 km (e non 708!).

La ridefinizione del tracciato ha di fatto svuotato di potere la Corte di Giustizia Internazionale, che il 9 luglio del 2004 aveva non solo richiesto lo smantellamento completo della barriera ma anche - con 14 voti favorevoli a uno - l’attivazione delle procedure di risarcimento per la distruzione di case e strutture produttive agricole lungo il percorso della barriera 168.

In spregio a qualsiasi autorità internazionale, il Muro occupa terra cisgiordana, la attraversa per abbracciare e isolare dalla Palestina 69 insediamenti israeliani 169, e la terra che giace sul lato ovest della barriera è di fatto esclusa dalla sovranità palestinese.

Quando il tracciato sarà completato, i chilometri quadrati di terra palestinese occupata da Israele e a questo collegata saranno 576,81, un altro 10,2% della Cisgiordania 170.

Si pensi al villaggio palestinese di Jayyus 171, nel nord-est della Cisgiordania e alla sua erosione di terra, un'erosione che è politica e non naturale:

    11,0% requisita per la costruzione di insediamenti alla fine degli anni ’80;
    4,5% requisita per la costruzione del tracciato del Muro;
    il 68% delle terre coltivabili, pari a 8,64 chilometri quadrati, cade nel lato ovest del Muro, e quindi è inaccessibile senza permesso israeliano.

Che si viva al di qua o al di là del Muro, nel lato est o ovest, l’accesso alle fonti di reddito (principalmente terra coltivabile) richiede allora l’attraversamento dei cancelli della barriera, con il permesso e sotto la sorveglianza delle autorità israeliane.

Ottenere il permesso di superare i cancelli della barriera per coltivare la propria terra, per i palestinesi residenti nel lato est significa superare una complessa procedura, attraverso la dimostrazione del diritto di proprietà: ciò non è sempre possibile 172 (abbiamo già accennato al fatto che il passaggio di proprietà della terra, nella cultura contadina palestinese, ha seguìto percorsi tradizionali che escludevano certificazioni e documenti assimilabili, nella maggioranza dei casi).

Chi ottiene il permesso - perlopiù solo nei periodi stagionali di raccolta delle olive - non può dedicare il proprio lavoro alla terra per tutta la giornata, ma solo per brevi periodi all’interno di una giornata. I cancelli della barriera sono aperti e sono chiusi per decisione unilaterale di Israele. Ciò genera, peraltro, preoccupazione tra i contadini che in caso di gravi incidenti sul lavoro devono raggiungere, dai campi, i cancelli del Muro e ottenere l’attenzione dei soldati israeliani 173 (ad ambulanze e personale medico, per ragioni di “sicurezza”, è interdetto l’accesso alla zona).


Figura Israele e la costruzione del Muro della Cisgiordania

Elaborazione e traduzione propria da cartina delle "Nazioni Unite OCHA oPT"


Inoltre, chi vive al di là del Muro, nel lato ovest - tra la Linea Verde e il tracciato della Barriera (“zona cuscinetto”) - è isolato da tutto il resto della Cisgiordania, in un’area chiusa militarmente, con lo status israeliano di “residente permanente”.

E’ questa la vita quotidiana, ad esempio, dei 5.600 palestinesi del villaggio di Barta’a, nel nord della Cisgiordania. Un’unità mobile della UNRWA aveva accesso a uno dei due cancelli per entrare a Barta’a, due volte alla settimana, per sostenere con un’unità medica mobile la salute dei 1.140 rifugiati. Dal settembre del 2007 l’accordo con le autorità israeliane è caduto e il servizio medico interrotto 174. Oggi, le donne in gravidanza lasciano la comunità un mese prima del parto: ogni emergenza medica tra le 22:00 e le 5:30 - quando i cancelli del muro sono chiusi - è nelle mani delle autorità israeliane 175, alle quali spetta l’autorizzazione all’ingresso di unità mediche o la possibilità di uscire dalla comunità per raggiungere le strutture della vicina Jenin.

Si conta che tra i 33.000 e i 60.000 palestinesi di 42 villaggi vivranno questa condizione 176, una volta completato il tracciato del Muro, soprattutto nel governatorato di Betlemme. E’ una situazione simile a quella che vivono circa 63.000 palestinesi 177 dei quartieri arabi di Gerusalemme Est, nella quale i primi insediamenti datano 1968 (Gerusalemme Ovest era già “israeliana”): a separarli dal centro della città e dai suoi servizi c’è proprio il tracciato della barriera, che qui entra significativamente in profondità rispetto alla Green Line del 1949.


L’importanza di Gerusalemme Est non è solo nei libri sacri e in quelli di storia, ma anche nel destino dello stato di salute di migliaia di palestinesi. Per la Palestina storica, Gerusalemme Est è il centro della medicina specialistica, con i suoi 642 posti letto 178 per sei ospedali, specializzati in gran parte dei settori della medicina, dall’oftalmica alla pediatria.

Già dal 1993 raggiungere questi servizi richiedeva permessi speciali per motivi di salute, ottenuti superando gli ostacoli della procedura amministrativa, sotto la discrezionalità israeliana. Tuttavia le strutture erano raggiungibili aggirando i checkpoint, specie a piedi. Con la costruzione della barriera è diventato impossibile: impossibile è oggi raggiungere gli ospedali di Gerusalemme Est in caso di chiusura dei cancelli per festività israeliane o per percepiti motivi di sicurezza, e difficile è ottenere un permesso di accompagnamento del malato. Ottenere il permesso, poi, può significare attese ai cancelli superiori alle due ore, da parte di bambini, uomini e donne in precario stato di salute e in attesa di raggiungere l’appuntamento con il proprio medico 179. Anche nei casi di più stretta emergenza, un rapporto del 2009 della Mezza Luna Rossa palestinese 180 (facente parte dell’organizzazione che riunisce Croce e Mezza Luna rossa di tutto il mondo) ha registrato che il 65,68% dei ritardi o dei rifiuti all’accesso delle ambulanze della Mezza Luna Rossa sono avvenuti a Gerusalemme (289 su 440), per la quasi totalità nei checkpoint di Kalandia 181 e Za’ayim.


A pagarne il prezzo sono quindi, ancora una volta, i palestinesi, che pur già subiscono il peso della presenza dei coloni, degli insediamenti stessi, nonché del sistema stradale israeliano in Cisgiordania che frantuma la comunità palestinese in tanti villaggi isolati. Il Muro rappresenta allora l’anello che chiude la catena dei processi di frammentazione delle comunità palestinesi, e di occupazione della Cisgiordania attraverso colonie di insediamento protette.

Questa scheda è dedicata alla Palestina, come entità nazionale in divenire, e al popolo palestinese che la costituirà. Un popolo che ha diritto alla Resistenza, a reclamare la propria terra e alla decolonizzazione pacifica dell’area. Solo attraverso il riconoscimento di tali rivendicazioni per i palestinesi sarà possibile la costruzione di un’unica unità territoriale nella quale sia di nuovo realtà - e non rappresentazione virtuale - la convivenza pacifica e egalitaria tra palestinesi e ebrei, come fu per 600 anni prima dell’arrivo degli ebrei d’Europa, figli dell’ideologia coloniale e dell’idea di una supposta “supremazia bianca”.


                La condanna degli assedi medievali di Gaza e della colonizzazione in Cisgiordania, della ghettizzazione e dell’apartheid, porta con sé il sapore di una punizione collettiva, che - in forza dell’art. 33 della IV Convenzione di Ginevra - è “crimine di guerra”, con l’identificazione di criminale, vittima e l’urgenza di risarcimenti.

Introduzione (a)

b. Insediamenti, avamposti e "riserve"

c. Terra agricola: colonie e divieti

d. Violenze "diffuse": i civili israeliani

e. Violenze di Stato (d'Israele)

f. Rete stradale e libertà di movimento

g. Il muro

h. L'occupazione dell'acqua

speciale. Conclusioni


        Note e riferimenti bibliografici di sezione:
        (consultabili anche con un click sul richiamo di nota)

                        Come ricordato dalla Proposta di Risoluzione Comune 2012/2694, presentata il 27 giugno 2012 al Parlamento Europeo

                        Itisapartheid.org, Facts about Israeli Apartheid, Quotes

                        Israel Ministry of Foreign Affairs, “Israel, the conflict and peace: answer to frequently asked question”

                        International Court of Justice (2004), Report of judgments, advisory opinions and orders, paragrafi 95-101 e 120

                        Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (1979), Risoluzione 446

                Id. (1979), Risoluzione 452

    Id. (1980), Risoluzione 465
    Id. (1980), Risoluzione 471
    Id. (1980), Risoluzione 476

                            Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU (2007), “Rapporto all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite”

                            Comitato Internazionale della Croce Rossa (2001), “Conference of High Contracting Parties to the Fourth Geneva Convention”, Resource Centre

Note e riferimenti bibliografici di sezione:
(consultabili anche con un click sul richiamo di nota)

    Ufficio Statistico Palestinese 2012, Op. cit., “Palestine in Figures 2011”
    Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari (OCHA) (2007), “The humanitarian impact on palestinians of Israeli settlements and other infrastructure in the West Bank”, p. 18
    OCHA 2007, Op. cit., “The humanitarian impact on palestinians of Israeli settlements and other infrastructure in the West Bank”, p. 20
    Ufficio Statistico Palestinese 2012, Op. cit., “Palestine in Figures 2011”
    OCHA 2007, Op. Cit., “The humanitarian impact on palestinians of Israeli settlements and other infrastructure in the West Bank”, p. 95
    Cremonesi, L. (1994), “Strage di Hebron. Goldstein il solo colpevole”, quotidiano Il Corriere della Sera
    OCHA 2007, Op. cit., “The humanitarian impact on palestinians of Israeli settlements and other infrastructure in the West Bank”, p. 32
    OCHA 2007, Op. cit., “The humanitarian impact on palestinians of Israeli settlements and other infrastructure in the West Bank”, p. 34
    Horovitz, D. (2012), “Talia Sasson: We had no state for 2,000 years. Why are we now jeopardizing its Jewish, democratic essence?”, in The Times of Israel>
    B’TSelem (2002), “Land Grab: Israel's Settlement Policy in the West Bank”
    e
    Id. (2011), “14 July '11: Yovel outpost: Israel retroactively approves theft of private land”
    OCHA 2007, Op. cit., “The humanitarian impact on palestinians of Israeli settlements and other infrastructure in the West Bank”, p. 34
    Benvenisti, M. (1984), “The West Bank data project: a survey of israeli’s policies”, American Enterprise Institute, Washington e Londra, p. 31
    Oltre quanto concordato nell’ambito del Wye River Memorandum
    OCHA 2007, Op. cit., “The humanitarian impact on palestinians of Israeli settlements and other infrastructure in the West Bank”, p. 44



Note e riferimenti bibliografici di sezione:
(consultabili anche con un click sul richiamo di nota)

    OCHA 2007, Op. cit., “The humanitarian impact on palestinians of Israeli settlements and other infrastructure in the West Bank”, p. 40
    Ufficio Statistico Palestinese 2012, Op. cit., “Palestine in Figures 2011”
    OCHA 2007, Op. cit., “The humanitarian impact on palestinians of Israeli settlements and other infrastructure in the West Bank”, p. 106
    Karmi, G. (1999), “The Palestinian Exodus, 1948-1998”, Ithaca Press. p. 90
    OCHA 2007, Op. cit., “The humanitarian impact on palestinians of Israeli settlements and other infrastructure in the West Bank”, p. 108
    OCHAoPT (ottobre 2011), “Olive harvest factsheet”
    OCHAoPT ottobre 2011, Op. cit., “Olive harvest factsheet”
    OCHAoPT (luglio 2012), “The humanitarian impact of the barrier”

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