Don Giorgio : A quattro anni dalla morte di Vittorio Arrigoni



 don Giorgio De Capitani
Ricordare Vittorio Arrigoni a quattro anni dalla sua uccisione (15 aprile 2011), non mi è facile, se voglio evitare di cadere nelle solite cose, dette e ridette più volte.
Ogniqualvolta lo penso – e confesso che lo faccio frequentemente – vorrei poter cogliere tante cose su di lui che non sono ancora riuscito a cogliere.
Se ricordare significasse ri-presentare una persona cara, sempre allo stesso modo, sempre con gli stessi vestiti, sempre con le stesse abitudini, sempre con le stesse idee o convinzioni o perfino con gli stessi errori e peccati, allora non solo sarebbe una perdita di tempo, ma addirittura una mancanza di rispetto per quella persona. Se è vero che la morte toglie ogni velo, perché non ri-scoprire, dietro i veli, la nudità di quell’essere che l’esistenza, in bene o in male, ha coperto o in parte represso?
Ecco allora che, al di là di ciò che una persona ha detto o ha fatto, mi piacerebbe poter entrare dentro il suo essere, e scoprire qualcosa dei suoi desideri, dei suoi sogni, delle sue attese e speranze. Una bella pretesa – obietterà qualcuno – dal momento che nemmeno ciascuno di noi è in grado di entrare nel proprio essere, e leggervi un mondo misterioso.
E succede che, quando si incontra una persona “speciale”, sembra quasi che i due mondi interiori si incontrino e dialoghino tra di loro, e che il mondo interiore dell’altro ci aiuti a scoprire anche il nostro.
Per evitare ogni equivoco, per mondo interiore non intendo necessariamente quello religioso (anzi, questo talora non fa che alienarci dal nostro essere), ma quel mondo dell’essere che è anzitutto Umano, ma nello stesso tempo sovr-Umano. Dire sacro – lo vorrei ripetere fino alla nausea – non è dire per forza religioso. Tutto è sacro, perché dentro ogni cosa c’è qualcosa di ”extra-ordinario”. Chiamatelo divino, e mi sta bene. Chiamatelo sovrumano, e mi sta bene, ma non nel senso che l’umano ne sia quasi sovrastato e represso.
Ed ecco la domanda che mi punge: qual era la motivazione profonda che spingeva Vittorio a dedicarsi agli altri? Una domanda che mi sono chiesto migliaia di volte. Ogni risposta fuori dall’essere sarebbe per lo meno superficiale, e non mi soddisferebbe. E in realtà non mi soddisfa, perché in tal caso non riuscirei proprio a entrare in sintonia, se pensassi al quel mondo di Umanità dove tutti possiamo ritrovarci fratelli e solidali, amici e compagni, pur lontani, divisi da barriere geografiche o da contesti diversi.
Ciò che mi ha unito profondamente a Vittorio è stato quel suo essere Umano, a tutti i costi, al di là di ogni confessione religiosa, al di là di ogni razza, al di là perfino del confini convenzionali tra giustizia e ingiustizia. La giustizia non è israeliana o palestinese, così pure l’ingiustizia. Se si sceglie di stare dalla parte dei più deboli, è perché i più deboli non hanno patria, o, se ce l’hanno, la patria è solo una questione di confini che chiudono e non abbracciano. Tra chi ha patria e chi non ce l’ha non c’è differenza, se a soffrire è l’essere umano. Paradossalmente, chi non ha patria è più Umano, perché si sente parte di quell’Umanità che non ha confini.
In questo campo dell’essere, dove tutto è un insieme di orizzonti senza confini, mi sento in sintonia con qualunque altro essere, tanto nudo da essere povero con i poveri, senza parole colte e senza gesti eclatanti, pronto a donare se stesso, nella più assoluta libertà di spirito.
Ciò non è di tutti: Vittorio è stato uno dei pochi che è riuscito a mettere in sintonia le ansie del suo essere con le ansie dei più deboli.

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