Cronache di vita israeliana.“K.O. a Tel Aviv”, graphic novel di Asaf Hanuka


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L’annuncio di uno sfratto. Una boccetta d’inchiostro versato sugli ultimi disegni. Inizia così “K.O. a Tel Aviv”, graphic novel di Asaf Hanuka
“K.O. a Tel Aviv” (Bao Publishing) è la prima raccolta delle strisce di Asaf Hanuka, illustratore israeliano, classe 1974, fratello gemello di Tomer, anche lui celebre illustratore, di base a New York. I due gemelli, da alcuni considerati come i fratelli Coen del fumetto, dopo aver lavorato insieme ad alcune scene del film “Valzer con Bashir”, hanno appena pubblicato “Le Divin”, una storia a fumetti, per ora uscita solo in Francia, che racconta la storia di un’armata di bambini dai poteri magici, liberamente ispirata alla God’s Army tailandese e birmana.
Le strisce del libro si ritrovano in parte sul blog di Asaf, The Realist, che Asaf Hanuka tiene ormai dal 2010 raccontando, una tavola a settimana, il suo scontro quotidiano, i problemi dell’affitto, le scadenze delle consegne, le incomprensioni con la moglie, il figlio che a volte non lo riconosce più, la mancanza del fratello e le piccole grandi contraddizioni della capitale israeliana.
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Come si legge dalla copertina, Asaf Hanuka “vive a Tel Aviv, ma la sua esistenza potrebbe appartenere a qualunque metropoli del mondo”. Israele, la convivenza tra palestinesi e israeliani, musulmani ed ebrei, le problematiche violente di Tel Aviv, appaiono sullo sfondo. Questo è quasi un fumetto da camera, dove la storia e il mondo esterno entrano in punta di piedi, ma restano una scenografia.
Come la spesa al supermercato di Bnei-Brak, cittadina ultra-ortodossa alle porte di Tel Aviv, dove si spende pochissimo, ma solo con una kippah in testa. Hanuka si maschera da ebreo ortodosso ma il disagio è evidente, “avevo davvero l’impressione di non essere come loro”. Non solo. Di ritorno a Tel Aviv, ancora travestito, il disagio continua, la sensazione di essere guardato con diffidenza, solo per il fatto di indossare una kippah. “Questa è la dimostrazione di come Tel Aviv, e Israele in generale, sia formata da una miriade di gruppuscoli, ostili l’uno con l’altro, dove io non ho mai trovato il mio posto”.
Neppure manifestazioni come il Memorial Day riescono a far emergere un sentire comune. “Ogni volta è come se reclamassimo il diritto di vivere solo perché siamo stati perseguitati per secoli”, continua, “in realtà la storia collettiva della memoria ebrea non interessa tutti gli ebrei israeliani e ha un’eco ben poco rilevante nella storia personale”, soprattutto nella sua, di ebreo sefardita, e alla fine Hanuka ha ben poco in comune con il simbolo ebreo per eccellenza, Anna Frank.
L’album inizia con la ricerca dell’appartamento, un tema che si ripete lungo le pagine, con il racconto delle contestazioni del 2011, quando i ragazzi di Tel Aviv manifestarono contro l’aumento degli affitti. “Io sarei un esponente della classe media israeliana”, commenta Hanuka, “eppure sono in difficoltà ogni mese. Tutti abbiamo problemi di soldi e con l’affitto, vuol dire che c’è qualcosa che non va nel sistema economico. La sola differenza rispetto a qualche anno fa è che ora non ci si vergogna più a dirlo”.
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I temi cambiano imprevedibilmente a ogni tavola. “Non ci sono bugie, né trucchetti, il gioco sta nel disegnare quello che brucia di più”. Che sia l’ultimo litigio con la moglie, la difficoltà nel vivere con qualcuno che ha appena comprato un i-Phone, la voglia di gridarle “perlomeno io sono vero”, di tornare a guardarsi in faccia. O ancora l’ossessione per la propria immagine sui social network, l’ansia da like, l’imperativo morale di aggiornare lo status, di pubblicare qualsiasi cosa pur di generare un cambiamento, di ottenere una notifica. Il tentativo di restare l’ultimo uomo sulla terra senza smartphone. E poi i consigli del terapista, la chiamata dal New Yorker.
Hanuka si avvicina al tratto europeo, ma la costruzione della tavola a nove vignette ricorda quella di Watchmen e degli altri supereroi, dove la lettura inizia dalla vignetta centrale, il senso, la metafora è custodita nel cuore della pagina. Inscatolare l’esistenza è come una forma di terapia, un esercizio settimanale per creare un’autobiografia emotiva e cercare di sopravvivere alla lotta impari contro le proprie meschinità. Hanuka cerca un modello a cui aspirare, un’immagine archetipica a cui rifarsi, come i Fantastici Quattro o l’Incredibile Hulk, ma attinge anche a piene mani dalla cultura pop e il tratto si fa a volte più elementare, a volte più astratto, assomigliando quasi a Moebius.
Il tratto è minimale, i colori rinchiusi nei confini neri, quasi la traduzione su carta dell’esigenza di ridurre il quotidiano all’essenziale e ammettere finalmente che “Non provo niente”. Come Ice Man, restare indifferente, imperturbabile. Davanti alle lacrime di sua moglie, alle manifestazioni in memoria dell’olocausto, alla tentazione di fare di suo figlio la propria seconda possibilità, all’impossibilità di avere un altro prestito in banca. Non provare più niente e non farsene più una colpa, la somma conquista, il fine ultimo.

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