Palestina. Ereditare l'umiliazione

 
 
"'Maledetti arabi, un popolo fallito!'. Tutti noi da bambini abbiamo ascoltato frasi del genere dai nostri genitori, che avevano subito l'umiliazione della guerra e dell'esilio. Per noi, ora che siamo adulti, è diverso. Noi siamo una generazione umiliata dalla...
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"'Maledetti arabi, un popolo fallito!'. Tutti noi da bambini abbiamo ascoltato frasi del genere dai nostri genitori, che avevano subito l'umiliazione della guerra e dell'esilio. Per noi, ora che siamo adulti, è diverso. Noi siamo una generazione umiliata dalla pace". La riflessione di Nadim Khouri, palestinese.


Un padre insoddisfatto torna a casa dopo una dura giornata di lavoro. Per cena, a fargli compagnia, ci sono una radio che tiene in una mano, un giornale nell’altra, e un televisore in sottofondo.
Si gode il pasto, ma non riesce a digerire le notizie: bollettini di guerra, distruzione e il senso di sconfitta non fa che peggiorare la sua ulcera. 
Per sollevarsi sorseggia un tè alla menta bollente, poi sospira: "Maledetti arabi! Un popolo fallito". Finisce di mangiare con queste parole, come religiosamente fa sua madre concludendo il suo con un “amen”.
Per il lettore arabo, tutto ciò dovrebbe suonare fin troppo familiare.
Tutti noi abbiamo ascoltato frasi del genere, da bambini, seduti intorno al tavolo da pranzo. E oggi, da adulti, le ripetiamo. In ogni tappa della vita, sia che si saluti una nascita o che si seppellisca un morto, malediciamo il nostro popolo e la nostra condizione.
Crescendo nella Palestina occupata, non ho mai messo in discussione questo strano rito, né mi sono chiesto perché noi, in qualità di arabi, spendiamo così tanto tempo maledicendo noi stessi.
Queste scene sono ininterrottamente intrecciate alla mia infanzia, insieme al cibo preparato da mia madre, al gelsomino in giardino, alla sporcizia nelle strade.
Con l'età, tuttavia, ho cominciato a sentirmi frustrato per questo disgusto di sé che ha attraversato le generazioni.
Mi ricorda la diagnosi di Bernard Lewis del “malessere arabo”, con la quale mi trovavo in disaccordo perché proveniva da un osservatore esterno a cui non interessava affatto trovare una cura. Secondo Lewis, orientalista e sionista, l'umiliazione araba risale a secoli addietro. Risale al tempo in cui ha perso la sua gloria presso la cristianità occidentale.
Ma l'umiliazione, ho pensato tra me e me, ha origini storiche, però è anche dinamica. Deriva dall'azione umana e da essa può essere ribaltata. L’umiliazione cambia di generazione in generazione.
Così mi sono seduto alla stessa tavola della cena e ho iniziato a riflettere sulle espressioni di mio padre. Perché maledire se stesso e il suo popolo?
Le sue parole, ho capito, appartenevano alla sua generazione, che è stata umiliata dalle sconfitte della guerra. Malediceva gli arabi, perché gli arabi avevano promesso qualcosa che non potevano mantenere.
La radio che teneva ossessivamente attaccata al suo orecchio destro, una volta pronunciava discorsi di progresso e di libertà. Leggeva i giornali con passione, perché lo facevano sentire un individuo che agisce sulla storia, qualcuno che le notizie le fa e non solo qualcuno che le legge.
Oggi, la sua radio non promette nulla, semplicemente trasmette la sconfitta. Mio padre è diventato spettatore della sua stessa storia, e il telegiornale delle 20 gli dà un posto in prima fila per assistere al tragico destino del suo popolo.
E di noi che dire? E la mia generazione? Mi sono reso conto che per noi è diverso.
Noi non siamo cresciuti con le umiliazioni della guerra, ma con le umiliazioni della pace. 
La nostra di radio ci ha promesso un accordo definitivo nei prossimi mesi, e uno Stato palestinese nei prossimi anni, ma non abbiamo ottenuto nessuno dei due. Abbiamo perso una pace che era impossibile vincere, dal momento che era stata architettata per infliggere la sconfitta.
Ma noi giovani, ragazzi e ragazze, come potevamo saperlo? Come avremmo potuto, quando diplomatici, statisti, e una gigantesca industria della pace mettevano in scena ogni giorno un teatro sulla costruzione di uno Stato e sulla “pace”? Queste illusioni hanno ingannato gli adulti, figuriamoci noi giovani.
I titoli dei nostri giornali oggi stampano "trattini" tra israeliani e palestinesi, piuttosto che periodi: “calcio israeliano-palestinese”, “orchestra israelo-palestinese”, “teatro israelo-palestinese”...più grande è l’illusione dei trattini e meglio è.  
Abbiamo assistito al ritorno dei membri della nostra diaspora, e siamo stati anche orgogliosi dei nostri organismi "di Stato" appena creati. Conoscevamo i pericoli, abbiamo visto crescere gli insediamenti israeliani, ma per un po’ di anni queste realtà sono state minimizzate, messe a tacere dai suoni squillanti che celebravano una pace promettente.
Adesso è difficile anche solo immaginarlo. Con il senno di poi sugli esiti della Seconda Intifada, le molteplici guerre contro la Striscia di Gaza e il continuo colonialismo israeliano, potrebbe sembrare addirittura grottesco farlo.
Tuttavia, è un punto importante. Siamo una generazione umiliata dalla pace. Le cicatrici della nostra psiche collettiva sono state segnate dalle penne, non solo dalle spade.
“Pace” - una parola desiderata dai nostri ospiti - si è trasformata in un amaro boccone.
Nel profondo, è questa l'umiliazione che alimenta la nostra lotta contro la normalizzazione con Israele, contro i carri armati, i soldati e la polizia a Gaza, in Cisgiordania, a Gerusalemme, ad Haifa.
La cicatrice non ci ha lasciati rassegnati, ma ci ha dato il potere di diversificare la lotta e di batterci per un futuro in cui la pace sia un atto di giustizia, non un ostacolo ad essa.
Ma mentre scrivo queste parole per coltivare la speranza e per potermi liberare dal ciclo di umiliazione, continuo a guardare le notizie, e osservo il nichilismo e il caos che ci circondano. Non posso dare una mano, ma mi chiedo: quando mi siederò al tavolo della cucina per cenare con i miei futuri figli, chi maledirò?
E, Dio non voglia, i miei figli un giorno, mi malediranno?

*La versione originale di questo articolo è disponibile qui. La traduzione è a cura di Paola Robino Rizet.

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