Moni Ovadia analizza la paura: “Se capita sprona a progredire”



 
 
L’attore teatrale domenica parteciperà a Udine al festival con Rumiz e il direttore del Messaggero Veneto Tommaso Cerno. «Sfruttare l’ignoranza è strumento...
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La paura dell’altro, dello sconosciuto - persone o pensieri o futuro, sono connaturate all’uomo. Sono radicate in lui, fanno parte integrante del suo statuto ontologico, spesso instabile, fragile», così Moni Ovadia che domenica, alle 10, nell’ex chiesa di San Francesco, sarà protagonista assieme a Paolo Rumiz e al direttore del Messaggero Veneto, Tommaso Cerno, di un incontro nell’ambito de La Repubblica delle Idee, dal titolo “Le nuove paure della società plurale.
«La paura, se compresa e gestita in maniera razionale, può diventare forza inventiva, che sprona a progredire. È quando la paura viene strumentalizzata da politici senza scrupoli che essa può diventare devastante. Quello dello sfruttare l’ignoranza e le paure è strumento politico antico come il mondo, tecnica usata da demagoghi e capipopolo. Stalinismo e fascismi su questo hanno basato il loro successo».
La paura è connaturata all’uomo, ma ha anche altri fondamenti, nel contesto socio economico in primis?
«Abbiamo paura in quanto noi, occidentali e il pianeta intero direi, siamo di fronte a una società indecifrabile, che non ha al centro l’essere umano, ma l’economia, la finanza. Contiamo per quello che guadagniamo, produciamo, consumiamo. E’ una società che non dà certezze, si fonda sulla precarietà».
Ad esempio?
«Il lavoro, che non è più un diritto, ma oggetto di competizione, elargito o da conquistare. E’ una società costruita sull’alea, sull’oggi c’è, domani forse: l’economia va bene ci sarà qualcosa in più, l’economia va male qualcosa o tanto in meno. Come fa dunque l’essere umano, ontogeneticamente fragile, in questo conteso a non avere paura?».
Rischi?
«Non c’è da escludere che si torni agli scontri sociali. E’ meccanismo tipico, si sopporta poi si esplode e diventa rabbia e violenza. Perché una volta finiti gli ammortizzatori sociali rappresentati dai genitori, i futuri giovani si troveranno allo sbaraglio, in balia della precarietà più assoluta, avendo disarmato o disarmando lo Stato a favore del privato in settori vitali come la scuola o la sanità».
Lei questo pericolo, lo vede oggi in Italia?
«Lo vedo, per una ragione: perché le forze democratiche sono molto deboli, la promessa delle forze democratiche è debole. Renzi promette che andrà meglio e indica come miglioramento la diminuzione della disoccupazione dello 0,4, non del 20%. Ridicolo! Niente: del resto non può promettere di più, a rischio del suo collo».
Allora senza speranze come vive la gente?
«Vive nell’angoscia che diventa paura, che a sua volta può diventare violenza».
Quale l’antidoto?
«L’intervento pubblico per un diverso modello di sviluppo, come quello di Roosvelt che seppe attenuare tensioni e paure nell’America della depressione degli anni ‘30. Un nuovo new deal, che è poi quello che inseguono Tsipras e Podemos».
L’azione della Banca Centrale Europea, con immissione dei quantitative easing va in questo senso o no?
«Sì, ma ci vorrebbe molto di più per debellare la crisi. Ci vorrebbe una vera unità dell’Europa Federale».
Anche per contrastare il fenomeno dei migranti?
«Quello è un fenomeno da regolare non contrastare. Lo dicono fior di sociologi e opinionisti: abbiamo bisogno di loro, di una forza lavoro che vada a riempire i vuoti lasciati dalle nostre società sempre più avare di figli, e sempre più anziane».
A chi invece vede in loro solo pericolo e delinquenza, che dire?
«Non bisogna generalizzare, i delinquenti tra l’altro sono un’esigua minoranza. Come i mafiosi in America, su 30 milioni di nostri emigranti, 29 erano mafiosi? Regola di una civiltà del diritto è che il criminale risponde personalmente, non etnicamente. Perché se no, noi italiani dovremmo essere tutti in galera».
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