Guerre per l’energia in Medio Oriente e il gas naturale di Gaza
Michael Schwartz Middle East Eye
Come il gas naturale di Gaza è diventato l’epicentro di una lotta internazionale per le risorse energetiche
Roma, 7 marzo 2015, Nena News –
Indovinate un po’? Praticamente tutte le guerre, insurrezioni e altri
conflitti in Medio Oriente sono legati da un unico filo, che è anche una
minaccia: questi conflitti sono parte di una sempre più frenetica
competizione per trovare, estrarre e commercializzare combustibili
fossili il cui successivo consumo sicuramente porterà ad una serie di
catastrofiche crisi ambientali.
Tra i vari conflitti legati alle
fonti energetiche fossili nella regione uno di questi, pieno di
minacce, piccole o grandi, è stato largamente trascurato, e Israele ne è
l’epicentro. Le sue origini si possono far risalire ai primi
anni ’90, quando i leader israeliani e palestinesi hanno iniziato ad
confrontarsi su supposti depositi di gas naturale nel Mediterraneo lungo
le coste di Gaza. Nei decenni successivi questo è diventato un
conflitto su più fronti che ha coinvolto vari eserciti e tre flotte. Nel
frattempo ha già inflitto incredibili sofferenze a decine di migliaia
di palestinesi e minaccia di aggiungere nuovi livelli di miseria alle
vite di persone in Siria, Libano e Cipro. Forse potrebbe impoverire
persino gli israeliani.
Le guerre per le risorse, ovviamente,
non sono niente di nuovo. Di fatto tutta la storia del colonialismo
occidentale e della globalizzazione successiva alla Seconda guerra
mondiale è stata animata dallo sforzo di trovare e commercializzare le
materie prime necessarie a costruire o conservare il capitalismo
industriale. Ciò comprende anche l’espansione di Israele nei territori
palestinesi, e la loro appropriazione. Ma le risorse energetiche sono
diventate centrali nelle relazioni israelo-palestinesi solo negli anni
’90, e questo conflitto, inizialmente circoscritto, solo dopo il 2010 si
è esteso, includendo la Siria, il Libano, Cipro, la Turchia e la
Russia.
La storia avvelenata del gas naturale di Gaza
Nel lontano 1993,
quando Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) firmarono gli
accordi di Oslo che si pensava avrebbero posto fine all’occupazione
israeliana di Gaza e della Cisgiordania e creato uno Stato sovrano,
nessuno aveva prestato molta attenzione alla linea costiera di Gaza. Di
conseguenza Israele accettò che la neonata ANP controllasse totalmente
le sue acque territoriali, anche se la flotta israeliana stava ancora
pattugliando la zona. Le voci di depositi di gas naturale su
quella costa non interessavano molto a nessuno, perché allora i prezzi
erano molto bassi e le riserve molto abbondanti. Non c’è dunque da
stupirsi che i palestinesi se la siano presa comoda per reclutare la
società British Gas (BG) – una delle principali attori globali nella
ricerca di gas naturale – perché scoprisse cosa ci fosse davvero lì.
Solo nel 2000 le due parti siglarono un modesto contratto per sfruttare
quei giacimenti, che a quel punto erano stati effettivamente trovati.
BG promise di finanziare e gestire il
loro sfruttamento, sostenere tutti i costi e di far funzionare i
relativi impianti in cambio del 90% dei profitti, un accordo “di
condivisione dei proventi”, esoso ma usuale. Avendo un’industria del gas
naturale già in funzione, l’Egitto accettò di diventare il punto di
smistamento e di transito del gas sulla terraferma. I palestinesi
avrebbero ricevuto il 10% dei profitti (stimati in circa un miliardo di
dollari in totale) e avrebbero avuto l’accesso garantito al gas
sufficiente a coprire le loro necessità.
Se questo processo fosse stato un poco più rapido, il contratto sarebbe stato messo in pratica come descritto. Tuttavia
nel 2000, con un’economia in rapida espansione, con carenza di
combustibili fossili e in pessime relazioni con i suoi vicini ricchi di
petrolio, Israele si trovò a dover affrontare la mancanza cronica di
energia. Invece di cercare di rispondere a questo problema con un
aggressivo ma fattibile sforzo di sviluppare fonti di energie
rinnovabili, il primo ministro Ehud Barak diede inizio all’era dei
conflitti per i combustibili fossili del Mediterraneo orientale. Egli
portò al controllo navale di Israele sulle acque territoriali di Gaza
per opporsi e bloccare l’accordo con BG. Chiese invece che
Israele, e non l’Egitto, ricevesse il gas di Gaza e che controllasse
tutti i proventi destinati ai palestinesi – per evitare che i soldi
fossero usati per “finanziare il terrorismo.”
Con questo, gli accordi di Oslo erano
ufficialmente destinati al fallimento. Dichiarando inaccettabile il
controllo sui profitti del gas da parte di palestinesi, il governo
israeliano si impegnò a non consentire la benché minima forma di
autonomia finanziaria dei palestinesi, per non parlare della piena
sovranità. Poiché nessun governo o organizzazione palestinese lo avrebbe
potuto accettare, un futuro pieno di conflitti armati era assicurato.
Il veto israeliano portò all’intervento
del primo ministro inglese Tony Blair, che cercò di fare da mediatore
per un accordo che soddisfacesse sia il governo israeliano che
l’Autorità Nazionale Palestinese. Risultato: una proposta del 2007 che
avrebbe portato il gas in Israele, e non in Egitto, a prezzi inferiori a
quelli di mercato, con un taglio dello stesso 10% dei proventi
eventualmente destinato all’ANP. Comunque questi fondi sarebbero stati
prima versati alla banca della Federal Reserve a New York per una futura
devoluzione, garantendo che non sarebbero stati utilizzati per attacchi
contro Israele.
Questo accordo non aveva ancora
soddisfatto gli israeliani, che denunciarono la recente vittoria di
Hamas, un partito di miliziani, nelle elezioni a Gaza come una rottura
dei patti. Benché Hamas avesse accettato la supervisione della Federal
reserve sull’uso di quei soldi, il governo israeliano, ora guidato da
Ehud Olmert, insistette affinché “nessun diritto di estrazione venisse
pagato ai palestinesi.” Invece gli israeliani avrebbero fornito
l’equivalente di quei proventi “in beni e servizi.”
Ciò venne rifiutato dal governo palestinese. Poco dopo Olmert impose un blocco totale a Gaza, che il ministro della Difesa israeliano definì una forma di “guerra economica che potrebbe determinare una crisi politica, portando a un’insurrezione popolare contro Hamas.” Con la collaborazione dell’Egitto, a quel punto Israele prese il controllo di tutti i traffici commerciali dentro e fuori Gaza, limitando gravemente persino l’importazione di alimenti e distruggendo la sua industria della pesca. Come ha sintetizzato il consigliere di Olmert Dov Weisglass, il governo israeliano stava “mettendo a dieta” i palestinesi (cosa che, secondo la Croce Rossa, provocò rapidamente “malnutrizione cronica”, soprattutto tra i bambini di Gaza).
Ciò venne rifiutato dal governo palestinese. Poco dopo Olmert impose un blocco totale a Gaza, che il ministro della Difesa israeliano definì una forma di “guerra economica che potrebbe determinare una crisi politica, portando a un’insurrezione popolare contro Hamas.” Con la collaborazione dell’Egitto, a quel punto Israele prese il controllo di tutti i traffici commerciali dentro e fuori Gaza, limitando gravemente persino l’importazione di alimenti e distruggendo la sua industria della pesca. Come ha sintetizzato il consigliere di Olmert Dov Weisglass, il governo israeliano stava “mettendo a dieta” i palestinesi (cosa che, secondo la Croce Rossa, provocò rapidamente “malnutrizione cronica”, soprattutto tra i bambini di Gaza).
Quando i palestinesi rifiutarono di
nuovo le condizioni di Israele, il governo Olmert decise di estrarre il
gas in modo unilaterale, una cosa che, credevano, sarebbe stata
possibile solo una volta che Hamas fosse stato rimosso dal potere o
disarmato. Come ha spiegato l’ex comandante in capo dell’esercito
israeliano e attuale ministro degli Esteri Moshe Ya’alon, “Hamas… ha
dimostrato la sua capacità di bombardare le installazioni strategiche di
gas ed elettricità di Israele…E’ chiaro che, senza un’operazione
militare complessiva per estirpare il controllo di Hamas su Gaza,
nessuna attività di perforazione può essere effettuata senza il consenso
del partito radicale islamista.”
In base a questa logica, nell’inverno
del 2008 venne lanciata l’operazione “Piombo fuso”. Secondo il deputato
del ministero della Difesa Matan Vilnai, si intendeva sottoporre Gaza a
una “shoah” (la parola ebraica per olocausto o disastro). Yoav Galant,
il comandante in capo dell’operazione, affermò che era destinata a “far
tornare indietro Gaza di decenni.” Come ha spiegato il parlamentare
israeliano Tzachi Hanegbi, lo specifico obiettivo militare era
“rovesciare il regime terroristico di Hamas e occupare tutte le zone da
cui vengono sparati razzi contro Israele.”
L’operazione “Piombo fuso” ha
effettivamente “fatto tornare indietro Gaza di decenni.” Amnesty
International ha riferito che durante i 22 giorni dell’offensiva 1.400
palestinesi sono stati uccisi “compresi circa 300 bambini e centinaia di
altri civili disarmati, e vaste aree di Gaza sono state rase al suolo,
lasciando molte migliaia di senzatetto e la già disastrosa economia [di
Gaza] in rovina.” L’unico problema è stato che l’operazione “Piombo
fuso” non ha raggiunto il suo obiettivo di “trasferire la sovranità sui
giacimenti di gas a Israele.”
Più fonti di gas uguale più fonti di guerra
Nel 2009 il neoeletto governo
del primo ministro Benjamin Netanyahu ha ereditato la situazione di
stallo riguardo ai depositi di gas di Gaza e una crisi energetica
israeliana che è diventata ancora più seria quando la Primavera Araba in
Egitto ha interrotto e poi cancellato del tutto il 40% delle forniture
di gas al Paese. L’aumento del prezzo dell’energia ha presto contribuito
a determinare le più vaste proteste da parte di ebrei israeliani da
decenni. Quando ciò è accaduto, tuttavia, il regime di Netanyahu aveva
ereditato anche una soluzione potenzialmente permanente del problema. Un
immenso campo di gas naturale estraibile è stato scoperto nel Bacino
Levantino, una grande formazione sottomarina nella parte
orientale del Mediterraneo. Fonti ufficiali israeliane hanno
immediatamente affermato che la “maggior parte” delle nuove riserve di
gas scoperte si trovano “all’interno del territorio israeliano”. Così
facendo hanno ignorato le asserzioni contrarie da parte di Libano,
Siria, Cipro e dei palestinesi.
In altre parole, questo immenso
giacimento di gas avrebbe potuto essere effettivamente sfruttato insieme
dai cinque contendenti e un piano di produzione avrebbe potuto essere
messo in atto per migliorare l’impatto ambientale del rilascio nel
futuro di oltre 3 miliardi di metri cubi di gas nell’atmosfera del
pianeta. Tuttavia, come ha osservato Pierre Terzian, direttore del
giornale industriale Petrostrategie, “tutti i fattori di rischio sono
presenti…Questa è una regione in cui è frequente fare ricorso ad azioni
violente.”
Nei tre anni che hanno fatto seguito
alla scoperta, l’avvertimento di Terzian è sembrato ancora più
preveggente. Il Libano è diventato il primo punto caldo. All’inizio del
2011 il governo israeliano ha annunciato lo sfruttamento unilaterale di
due campi, circa il 10% del Bacino Levantino di gas, che si trova nelle
acque territoriali contese vicino al confine tra Israele e Libano. Il
ministro dell’Energia libanese Gebran Bassil ha immediatamente
minacciato uno scontro militare, affermando che il suo Paese non avrebbe
“permesso a Israele o a qualunque compagnia che lavori per gli
interessi israeliani di prendere una qualunque quantità del nostro gas
che si trova nella nostra zona.” Hezbollah, la più agguerrita fazione
politica in Libano, ha promesso attacchi con i razzi se “un solo metro”
di gas naturale fosse stato estratto dai campi contesi.
Il ministro israeliano delle Risorse ha
accettato la sfida, sostenendo che “queste aree sono all’interno delle
acque commerciali di Israele…Non esiteremo ad usare la nostra forza e la
nostra potenza per proteggere non solo il principio di legalità, ma
anche il diritto marittimo internazionale.” Terzian, giornalista esperto
nel settore petrolifero, ha proposto questa analisi della realtà dello
scontro: “In concreto….nessuno è disposto ad investire con il Libano in
acque contese. Non ci sono compagnie petrolifere libanesi in grado di
fare le trivellazioni e non c’è una forza militare in grado di
proteggerle. Ma dall’altra parte le cose sono diverse. Ci sono compagnie
israeliane in grado di operare in mare, e potrebbero assumersi il
rischio sotto la protezione dell’esercito israeliano.”
Sufficientemente sicuro, Israele ha
continuato ad esplorare i fondali e a trivellare nei due campi contesi,
schierando droni per controllare gli impianti. Nel frattempo il governo
Netanyahu ha investito ingenti risorse per prepararsi ad un possibile
conflitto futuro nella zona. Ad esempio, con un generoso finanziamento
americano, ha sviluppato il sistema di difesa antimissilistico “Iron
Dome”, destinato anche ad intercettare i razzi di Hezbollah ed Hamas
diretti contro gli impianti energetici israeliani. Infine, a partire dal
2011 ha lanciato attacchi aerei in Siria con lo scopo, secondo fonti
ufficiali USA, “di prevenire ogni spostamento di sistemi antiaerei
avanzati, missili terra-terra e terra-mare “ ad Hezbollah. Tuttavia
Hezbollah ha continuato ad accumulare razzi in grado di demolire gli
impianti israeliani, e nel 2013 il Libano ha fatto un passo autonomo. Ha
iniziato a negoziare con la Russia. L’obiettivo era di avere a
disposizione le compagnie del gas di quel Paese per sostenere le
rivendicazioni libanesi sulle acque territoriali, mentre la potente
marina militare russa avrebbe potuto dare una mano nella “disputa
territoriale di lunga durata con Israele.”
Dall’inizio del 2015 è sembrato
che si sia stabilita una situazione di deterrenza mutua. Benché Israele
sia riuscito a far funzionare il più piccolo dei due campi che ha
iniziato a sfruttare, la perforazione nel più grande è bloccata a tempo
indefinito “alla luce della situazione della sicurezza”. I
contrattisti americani di Noble Energy, incaricati da Israele, non hanno
intenzione di investire i 6 miliardi di dollari necessari in
infrastrutture che potrebbero essere sottoposte ad attacchi da parte di
Hezbollah e potenzialmente nel mirino della flotta russa. Da parte
libanese, nonostante la crescente presenza navale russa nella regione,
nessuna attività è iniziata. Nel frattempo in Siria, dove la violenza si
è estesa ed il Paese si trova uno stato di collasso armato, si è
concretizzata un’altra situazione di stallo. Il regime di Bashar al
Assad, di fronte alla feroce minaccia da parte di vari gruppi jihadisti,
è sopravvissuto in parte grazie al massiccio aiuto militare della
Russia, concordato in cambio di un contratto di 25 anni per lo
sfruttamento del giacimento di gas Levantino rivendicato dalla Siria.
Nell’accordo è compresa una notevole espansione della base militare
russa nella città portuale di Tartus, che garantirebbe una presenza
navale russa molto maggiore nel Bacino Levantino.
Mentre la presenza russa ha
apparentemente dissuaso gli israeliani dal tentativo di sfruttare
qualunque giacimento di gas reclamato dalla Siria, non c’è una presenza
russa nella Siria vera e propria. Così Israele ha contrattato la Genie
Energy Corporation statunitense perché individuasse e sfruttasse
giacimenti di petrolio nelle Alture del Golan, territorio siriano
occupato dagli israeliani dal 1967. Per far fronte alla possibile
violazione delle leggi internazionali, il governo Netanyahu ha invocato,
come giustificazione dei suoi atti, una sentenza della corte israeliana
in base alla quale lo sfruttamento di risorse naturali nei territori
occupati è legale. Allo stesso tempo, per prepararsi all’inevitabile
conflitto con qualunque fazione o insieme di fazioni esca vittoriosa
dalla guerra civile siriana, ha iniziato a incrementare la presenza
militare israeliana sulle Alture del Golan.
E poi c’è Cipro, l’unico Paese che
rivendica diritti sul Levantino che non sia in guerra con Israele. I
greco-ciprioti sono stati per molto tempo in conflitto permanente con i
turco-ciprioti, per cui non è sorprendente che la scoperta del gas
naturale Levantino abbia scatenato sull’isola tre anni di negoziati su
cosa fare, arrivati ad un punto morto. Nel 2014 i
greco-ciprioti hanno firmato un contratto di sfruttamento con Noble
Energy, il principale contrattista di Israele. I turco-ciprioti hanno
fatto un’altra mossa, firmando un contratto con la Turchia per lo
sfruttamento di tutti i campi reclamati dai ciprioti “fino alle acque
territoriali egiziane.” Imitando Israele e la Russia, il governo turco
ha subito spostato tre navi da guerra nella zona per bloccare
fisicamente qualunque intervento da parte di altri pretendenti. Di
conseguenza, quattro anni di manovre riguardo ai nuovi giacimenti
scoperti nel Bacino Levantino hanno prodotto poca energia, ma hanno
coinvolto nuovi e potenti pretendenti nella mischia, lanciando una
significativa escalation militare nella regione e hanno incrementato in
modo incommensurabile le tensioni.
Gaza, ancora e ancora
Ricordate il sistema “Iron Dome”,
sviluppato anche per bloccare i razzi di Hezbollah diretti contro i
campi di gas di Israele al nord? Nel corso del tempo è stato installato
sul confine con Gaza per bloccare i razzi di Hamas ed è stato testato
durante l’operazione “Eco di ritorno”, il quarto tentativo militare
israeliano di riportare all’ordine Hamas ed eliminare qualunque
“capacità palestinese di bombardare le installazioni strategiche di gas
ed elettricità di Israele.” L’operazione, lanciata nel marzo 2012, ha
replicato su scala ridotta le devastazioni dell’operazione “Piombo
fuso”, mentre “Iron Dome” ha raggiunto la percentuale del 90% di razzi
di Hamas eliminati. Neppure questo, tuttavia, pur essendosi dimostrato
un’utile appendice all’esteso sistema di sicurezza per i civili
israeliani, è stato sufficiente a garantire la protezione degli impianti
estrattivi del Paese esposti agli attacchi. Anche un solo colpo diretto
lì potrebbe danneggiare o demolire strutture così fragili e
infiammabili.
Il fallimento dell’operazione “Eco di
ritorno” per mettere tutto apposto ha dato il via a un’altra serie di
negoziati, che ancora una volta si sono arenati sul rifiuto palestinese
della richiesta israeliana di controllare tutto il combustibile e gli
introiti destinati a Gaza e alla Cisgiordania. Allora il nuovo governo
di unità palestinese ha seguito l’esempio di libanesi, siriani e
turco-ciprioti e alla fine del 2013 ha firmato una “concessione di
sfruttamento” con Gazprom, l’enorme compagnia russa di gas naturale.
Come con il Libano e la Siria, la flotta russa si è profilata
sull’orizzonte come un potenziale deterrente contro l’intromissione di
Israele. Nel frattempo, nel 2013, una nuova serie di blackout energetici
ha provocato “caos” in Israele, scatenando un drastico aumento del 47%
nel prezzo dell’elettricità. In risposta il governo di Netanyahu ha
preso in considerazione la proposta di iniziare l’estrazione sul proprio
territorio di petrolio dallo scisto argilloso [shale oil], ma il
rischio di inquinamento delle falde acquifere ha provocato un movimento
di rifiuto violento che ha frustrato questo tentativo. In un Paese pieno
di nuove imprese nel campo delle tecnologie avanzate lo sfruttamento di
fonti di energia rinnovabile non ha ancora avuto una seria attenzione.
Al contrario, ancora una volta il governo si è rivolto contro Gaza.
Avendo sullo sfondo la mossa di Gazprom
di sfruttare i depositi di gas rivendicati dai palestinesi, gli
israeliani hanno lanciato il loro quinto tentativo militare per
obbligare i palestinesi a cedere, l’operazione “Margine protettivo”, con
due obiettivi principali legati agli idrocarburi: scoraggiare i piani
russo-palestinesi ed eliminare il sistema missilistico di Gaza. Il primo
obiettivo è stato apparentemente raggiunto quando Gazprom ha rinviato
(forse per sempre) il suo accordo di sfruttamento. Il secondo, tuttavia,
è fallito quando i due attacchi sia da terra che dal cielo – nonostante
le devastazioni senza precedenti a Gaza – non sono riusciti a
distruggere le riserve di razzi di Hamas o il suo sistema sotterraneo di
assemblaggio; né ”Iron Dome” è riuscito a raggiungere la percentuale di
intercettazioni quasi totale necessaria a proteggere le strutture
energetiche previste.
Senza fine
Dopo 25 anni e cinque tentativi
militari israeliani falliti, il gas naturale di Gaza è ancora sotto la
superficie del mare e, dopo quattro anni, lo stesso si può dire di quasi
tutto il gas del Levantino. Ma le cose non sono rimaste le stesse. In
termini energetici, Israele è sempre più disperato, proprio
mentre ha ingrandito il proprio esercito, compresa la Marina, in modo
significativo. Gli altri pretendenti hanno, a turno, trovato partner più
grandi e potenti che li possono aiutare a rafforzare le proprie
richieste economiche e militari. Indubbiamente tutto ciò significa che
il primo quarto di secolo di crisi del gas naturale nel Mediterraneo
orientale non è stato altro che un preludio. Ci troviamo davanti alla
possibilità di più estese guerre per il gas, con tutte le devastazioni
che probabilmente porteranno.
Michael Schwartz, un eminente
docente emerito di sociologia alla Stony Brook University, è l’autore di
libri pluripremiati come “Protesta radicale e struttura sociale” e “ La
struttura del potere nel mondo degli affari americano” (con Beth
Mintz). Il suo libro sul sito TomDispatch [sito alternativo
nordamericano], “Guerra senza fine”, è centrato su come la geopolitica
militarizzata del petrolio ha portato gli USA a invadere e occupare
l’Iraq. Il suo indirizzo mail è Michael.Schwartz@stonybrook.edu
(Traduzione Amedeo Rossi)
In termini energetici, Israele è sempre più disperato. Abbiamo di fronte la possibilità di guerre più vaste per il gas
nena-news.it
Commenti
Posta un commento