Tony Judt :La vera lezione di Auschwitz
Negli ultimi anni il rapporto tra Israele e l'Olocausto è mutato.
All'inizio l'identità di Israele fu costruita sul rifiuto del passato,
trattando l'Olocausto come una prova di debolezza, una debolezza che era
compito di Israele superare dando vita a un nuovo tipo di ebreo. Oggi,
quando Israele è esposto al biasimo internazionale per il modo di
gestire i rapporti con i palestinesi e per l'occupazione del territorio
conquistato nel 1967, i suoi difensori tendono a chiamare in causa la
memoria dell'Olocausto. Attenti, dicono, se criticate Israele con troppa
veemenza, sveglierete i demoni dell'antisemitismo. Anzi, il messaggio è
che un atteggiamento fortemente critico nei confronti di Israele non si
limita a risvegliare l'antisemitismo: è di per sé antisemitismo. E con
l'antisemitismo si apre la strada che porta – o ritorna – al 1938, alla
"notte dei cristalli" e di là a Treblinka e ad Auschwitz. Se volete
sapere dove va a finire, dicono costoro, non avete che da visitare Yad
Vashem a Gerusalemme, l'Holocaust Museum a Washington o i monumenti
commemorativi e i musei sparsi in tutta Europa.
Comprendo i
sentimenti che dettano queste affermazioni. Ma queste affermazioni in sé
sono molto pericolose. Quando a me e ad altri, con la scusa che non
vanno risvegliati gli spettri del pregiudizio, viene rimproverato il
dissenso nei confronti di Israele, rispondo che il problema va posto al
contrario. È proprio un tabù del genere che può stimolare
l'antisemitismo. Da qualche anno visito università e scuole superiori,
negli Stati Uniti e altrove, per tenere conferenze sulla storia europea
del dopoguerra e la memoria della Shoah. Sono gli argomenti che tratto
anche nell'università dove insegno. E posso dire quali conclusioni ne ho
derivate. Oggi non c'è bisogno di ricordare agli studenti il genocidio
degli ebrei, le conseguenze storiche dell'antisemitismo e il problema
del male. Tutti conoscono queste cose, con un'ampiezza ignota ai loro
genitori. Ed è così che dev'essere. Ma mi ha colpito recentemente la
frequenza con cui affiorano nuove domande: «Perché ci fissiamo
sull'Olocausto?», «Perché (in certi Paesi) è illegale negare l'Olocausto
ma non altri genocidi?», «Non si sta esagerando la minaccia
dell'antisemitismo?». E ancora, sempre più spesso: «Non è che Israele
sta usando l'Olocausto come scusa?».
Due sono i miei timori: che
sottolineando l'eccezionalità storica dell'Olocausto e al contempo
invocandolo costantemente in riferimento alle vicende contemporanee,
abbiamo creato confusione nei giovani; e che gridando all'antisemitismo
ogni volta che qualcuno attacca Israele o difende i palestinesi stiamo
allevando una generazione di cinici. Perché la verità è che oggi
l'esistenza di Israele non è in pericolo. E oggi, qui in Occidente, gli
ebrei non si trovano ad affrontare minacce e pregiudizi neppure
lontanamente paragonabili a quelli del passato, né paragonabili ai
pregiudizi attualmente nutriti nei confronti di altre minoranze.
Facciamo un piccolo esercizio. Vi sentireste al sicuro, accettati e
benvenuti, negli Stati Uniti, oggi, se foste un musulmano o un immigrato
clandestino? E se foste un "Paki" in certe zone dell'Inghilterra? O un
marocchino in Olanda? Un "beur" in Francia? Un nero in Svizzera? Uno
"straniero" in Danimarca? Un rumeno in Italia? Uno zingaro ovunque in
Europa? E non vi sentireste più al sicuro, più integrati, più accettati
come ebrei? Credo che siamo tutti in grado di rispondere.
In molti di
quei Paesi – Olanda, Francia, Stati Uniti, per non parlare della
Germania – la minoranza ebrea locale è fortemente rappresentata nel
mondo degli affari, dei media e delle arti. In nessuno di quei Paesi gli
ebrei sono stigmatizzati, minacciati o emarginati.
Il pericolo di
cui gli ebrei – e non solo loro – dovrebbero preoccuparsi, se c'è, viene
da un'altra direzione. Abbiamo agganciato la memoria dell'Olocausto
così saldamente alla difesa di un unico Paese – Israele – che rischiamo
di provincializzarne il significato morale. È vero, il problema del male
nel secolo scorso, per citare Hannah Arendt, ha preso la forma del
tentativo tedesco di sterminare gli ebrei. Ma non si tratta solo dei
tedeschi e non si tratta solo degli ebrei. Non si tratta neppure solo
dell'Europa, anche se è là che quel tentativo è avvenuto. Il problema
del male – del male totalitario, del male del genocidio – è un problema
universale. Ma se lo si manipola per trarne un vantaggio locale, ciò che
accadrà (e io credo stia già accadendo) è questo: coloro che vivono in
contesti lontani da quel crimine – o perché non sono europei o perché
sono troppo giovani perché per loro il ricordo di quell'evento abbia
rilevanza – non capiranno che rapporto abbia con loro la memoria che ne
viene coltivata e smetteranno di ascoltare quando cercheremo di
spiegarglielo.
In altre parole: l'Olocausto perderà la sua risonanza
universale. Dobbiamo sperare che ciò non avvenga e dobbiamo trovare il
modo per mantenere intatta la lezione centrale che davvero può venirci
dalla Shoah: e cioè la facilità con cui le persone – un popolo intero –
possono essere diffamate, deumanizzate e annientate. Ma non approderemo a
nulla, se non riconosciamo che questa lezione potrà anche essere messa
in dubbio e dimenticata. Se non mi credete, andate a chiedere, fuori dai
Paesi sviluppati dell'Occidente, qual è la lezione di Auschwitz. Avrete
risposte ben poco rassicuranti.
Non c'è una soluzione facile a
questo problema. Ciò che pare chiaro agli europei dell'Europa
occidentale è ancora oscuro per gli europei dell'Est, come era oscuro
agli stessi europei dell'Ovest quarant'anni fa. Il monito morale di
Auschwitz, che campeggia a caratteri cubitali sullo schermo della
memoria europea, è quasi invisibile per africani e asiatici. E ancora – e
forse soprattutto – ciò che sembra lampante alle persone della mia
generazione avrà sempre meno senso per i nostri figli e i nostri nipoti.
Possiamo preservare un passato europeo che da memoria sta sfumando in
storia? Non siamo condannati a perderlo, anche solo in parte?
Forse
tutti i nostri musei, i nostri monumenti commemorativi, le nostre gite
scolastiche obbligatorie non sono il segno che oggi siamo pronti a
ricordare, ma indicano invece che riteniamo di esserci lavati la
coscienza e di poter cominciare a mollare e a dimenticare, delegando
alle pietre il compito di ricordare al posto nostro. Non so: l'ultima
volta che sono stato al Monumento agli ebrei d'Europa assassinati, a
Berlino, annoiati ragazzini in gita scolastica giocavano a rimpiattino
tra le steli. Quello che so per certo è che se la storia deve svolgere
il compito che le compete, e conservare per sempre traccia dei crimini
passati e di tutto il resto, è meglio lasciarla stare. Quando andiamo a
saccheggiare il passato per profitto politico – scegliendone i pezzi che
fanno al caso nostro e reclutando la storia a insegnare opportunistiche
lezioni morali – ne caviamo cattiva morale e anche cattiva storia. Nel
frattempo, forse dovremmo, tutti quanti, fare attenzione quando parliamo
del problema del male. Perché di banalità ce n'è più di un tipo. C'è la
notoria banalità di cui parlava Hannah Arendt: l'inquietante, normale,
familiare, quotidiano male dentro gli esseri umani. Ma c'è anche
un'altra banalità, quella dell'abuso: l'effetto di appiattimento e
desensibilizzazione del vedere o dire o pensare la stessa cosa troppe
volte, fino a stordire chi ci ascolta e a renderlo immune al male che
descriviamo. Questa è la banalità – la banalizzazione – che rischiamo
oggi.
Dopo il 1945 la generazione dei nostri genitori accantonò il
problema del male perché – per loro – aveva troppo significato. La
generazione che verrà dopo di noi corre il pericolo di accantonare il
problema perché ora contiene troppo poco significato. Come si può
impedire che ciò avvenga? In altre parole, come si può fare in modo che
il problema del male resti la questione fondamentale della vita
intellettuale, e non solo in Europa? Non ho una risposta ma sono sicuro
che questa è la domanda giusta. È la domanda che Hannah Arendt ha posto
sessant'anni fa. E sono certo che la porrebbe ancora oggi.
Testo tratto dal discorso tenuto dall'autore a Brema, in occasione
del ricevimento del premio Hannah Arendt, traduzione di Paola
Mazzarelli. Di Tony Judt è in libreria «Dopoguerra», Mondadori, pagg.
1.076, 32,00.
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17 dicembre 2009
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