Paola Caridi: Roma vaga sul riconoscimento dello Stato di Palestina

Una ‘lunga marcia’, oppure una battaglia di rimessa? È una domanda forte, eppure necessaria, quella che bisogna porsi sulla questione del riconoscimento dello Stato di Palestina. Prima di porsela, però, occorre scendere nei dettagli.
Il riconoscimento dello Stato di Palestina viaggia da anni su binari paralleli, da un lato nelle organizzazioni internazionali, e, dall’altro, nei parlamenti nazionali. Spesso, però, protagonisti e strategie non sono gli stessi.
Riconoscimento e nuova asimmetria
Cominciamo dal riconoscimento dello Stato di Palestina da parte dell’Onu e delle sue agenzie. Il traguardo raggiunto il 29 novembre 2012 con l’ammissione della Palestina come Stato osservatore nelle Nazioni Unite ha avuto una singolare gestazione.
Cominciato quando, nel 2010, la presidenza dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) e i negoziatori dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) hanno compreso di poter usare la carta del riconoscimento come elemento di pressione nei confronti di Israele e della comunità internazionale.
Un carta jolly. Cerchiamo di non far precipitare la situazione - questa la sintesi del messaggio lanciato dalla leadership palestinese. Dall’altra parte della barriera, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha usato la carta del riconoscimento come una giustificazione a intensificare le costruzioni dentro le colonie israeliane in Cisgiordania e nel cuore di Gerusalemme est.
Israele sa bene che il riconoscimento (effettivo, non solo formale) di uno Stato di Palestina comporterebbe un cambiamento importante nell’asimmetria del rapporto tra Israele e Palestina: uno Stato a tutti gli effetti, occupante e con il monopolio dell’uso della forza, da una parte, e dall’altra parte una entità cui viene legata l’identità di popolo, ma alla quale non vengono dati gli strumenti istituzionali tipici di uno Stato nazionale.
Se riconoscimento effettivo vi fosse, vi sarebbero due stati che devono regolare contese territoriali partendo da un confine riconosciuto dalla comunità internazionale, e cioè quello dell’armistizio del 1949. Israele diventerebbe potenza occupante su di un suolo sovrano, e le colonie israeliane sarebbero né più né meno città costruite sulla terra dello Stato palestinese.
Diplomazia imbarazzata
Quale, dunque, la differenza tra il riconoscimento dello Stato di Palestina nel sistema Onu e il riconoscimento da parte di singoli stati? A cambiare sono i protagonisti. Non è tanto l’Anp a spingere per le risoluzioni che si stanno affollando nei parlamenti europei. In campo ci sono pressioni interne palesi e sempre più diffuse nelle opinioni pubbliche nazionali in Europa.
E c’è anche il disagio - non evidente in pubblico, ma chiarissimo nei corridoi diplomatici e politici - delle cancellerie che sanno quanto sia delicata questa fase del conflitto israelo-palestinese, tra Gaza e Gerusalemme.
Il jolly del riconoscimento è nelle mani delle cancellerie e/o dei parlamenti europei. Non in quelle palestinesi. Non c'è niente che costringa gli stati a riconoscere la Palestina, ma la pressione è evidente. Chiara la pressione che il voto del parlamento britannico ha significato, e ancor più chiara la pressione sarebbe se in un altro paese dotato di potere di veto nel consiglio di sicurezza dell’Onu, cioè la Francia, il parlamento si esprimesse in modo simile.
Risoluzioni italiane sul riconoscimento della Palestina
La posizione italiana non ha la rilevanza di Londra o di Parigi. Quello che appare dalle due risoluzioni presentate alla Camera dei Deputati e dalla risoluzione presentata al Senato (non ancora calendarizzate) è che non abbiano quel peso necessario per essere considerate parte di una strategia-Paese.
Il contenuto delle risoluzioni non mostra una chiara strategia italiana sul Medio Oriente e sulla stessa, specifica questione. Si rischia, insomma, la genericità, quando non ci si arrischia di cambiare gli stessi punti della trattativa di pace.
Un esempio è contenuto nella mozione, prima firmataria Pia Locatelli, presentata alla Camera.
Questa contiene un passaggio ambiguo - “la necessità di rafforzare la leadership legittima del presidente palestinese Abbas e delle istituzioni palestinesi con capitale Ramallah, scongiurando il rischio di un rafforzamento di altre entità politiche che pretendano di rappresentare i palestinesi” - che rischia di far considerare Ramallah la futura capitale dello Stato di Palestina (e non Gerusalemme est), di bloccare i tentativi di riconciliazione tra Fatah e Hamas, e di considerare ormai definitiva la frattura tra Cisgiordania e Gaza.
È questo che l’Italia vuole? È questo che vuole, nel caso specifico, una parte della sinistra italiana in parlamento? Non si ritiene invece, all’interno delle classi dirigenti di questo paese, di riflettere seriamente sul paradigma di Oslo, che tutti sanno - nei circoli accademici tanto quanto nelle cancellerie - essere ormai superato?
Il riconoscimento dello Stato di Palestina è, per i suoi tempi, una lunga, lunghissima marcia. Dal punto di vista della cronaca e della storia recente, si sta invece trasformando in una battaglia di rimessa, proprio per il superamento - nei fatti e sul terreno - del paradigma di Oslo.
Le stesse élites politiche palestinesi - Fatah, Hamas, gli uomini dell’Olp e dell’Anp - sono protagoniste di questa battaglia di rimessa, che mette al centro la territorialità, lo Stato, lo Stato Nazionale, proprio in una fase in cui, dal basso, la richiesta poggia su altri pilastri: identità e diritti.
Questi non sono per forza di cose difendibili all’interno di uno Stato nazionale, definito secondo le linee dell’armistizio del 1949, per quanto concerne i palestinesi.
Se questa è la situazione, sul terreno e all’interno della società palestinese, la battaglia per il riconoscimento dello Stato di Palestina è di rimessa perché la storia è andata avanti, si è incanalata nei percorsi segnati dalla realtà. La politica, complessivamente intesa, non è ancora riuscita a introiettare e digerire il cambiamento.
Paola Caridi è analista e scrittrice, autrice di Gerusalemme senza Dio. Ritratto di una città crudele (Feltrinelli 2013).

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