Anna Segre : Stato degli ebrei o degli israeliani?
Ho
passato gran parte della mia vita, fin dai tempi dell’Hashomer
Hatzair a sostenere il diritto degli ebrei della diaspora a
criticare Israele. Grandi discussioni, grande sfoggio di
riflessioni teoriche, fiumi d’inchiostro spesi su questo tema:
gli ebrei che devono sempre essere responsabili l’uno per
l’altro, le ricadute sulla diaspora delle scelte compiute da
Israele, il nostro forte coinvolgimento emotivo, la
preoccupazione per il futuro dello stato ebraico. Oggi devo
confessare che questi discorsi non mi appassionano più, anzi, li
ritengo discutibili e controproducenti. Sia ben chiaro, non dico
che sia sbagliato criticare Netanyahu o chi per lui: tutti
abbiamo sempre criticato Reagan o Bush, la Thatcher o Sarkozy,
Putin o la Merkel senza sentire il bisogno di spendere neppure
un minuto ad analizzare chi o che cosa ci desse il diritto di
giudicare i leader di paesi di cui non eravamo cittadini. È
logico fare il tifo per il Meretz o per i laburisti in Israele
così come facciamo il tifo per i socialisti in Francia o per i
democratici negli Stati Uniti. Ma, proprio perché questa è una
cosa normale, non credo sia opportuno farne l’oggetto di una
riflessione teorica, o - come alcuni tendono a fare - affermarla
come elemento centrale della nostra identità ebraica.
Invischiarsi in sottili disquisizioni sul diritto della diaspora
a criticare governi e politici israeliani mi pare prima di tutto
una trappola verbale, che ci delegittima agli occhi di molti
prima ancora che apriamo bocca, a prescindere da quello che
diciamo. Viceversa, chi dichiara preventivamente il proprio
amore e la propria lealtà verso Israele pare sia
inspiegabilmente autorizzato a dire qualunque cosa. Abbiamo
visto Rabin, Sharon, Olmert, paragonati ai nazisti (una
vergognosa banalizzazione della Shoà che se fosse arrivata da
non ebrei non sarebbe stata tollerata neppure per una frazione
di secondo); abbiamo letto articoli che descrivevano questi
leader - democraticamente eletti dai cittadini israeliani - come
ingenui sognatori o come biechi individui disposti a mettere in
pericolo i propri cittadini pur di fare bella figura con le
potenze straniere. Mi è persino capitato in una commemorazione
ufficiale di Rabin in Comunità di sentir insinuare l’ipotesi di
un coinvolgimento di Peres (il Presidente della Repubblica in
carica in quel momento) nel suo assassinio. Offendere
pesantemente in un contesto ufficiale la più alta carica dello
Stato ebraico può apparire un modo piuttosto bizzarro di
manifestare la propria solidarietà a Israele senza se e senza
ma: a quanto pare siamo solo noi ebrei di sinistra ad
arrovellarci in complicate disquisizioni teoriche.
Peraltro, ogni riflessione sul rapporto tra Israele e la
diaspora mi pare avvenire inevitabilmente su un terreno minato:
Israele è lo stato del popolo ebraico o è lo stato dei suoi
cittadini indipendentemente dalla loro appartenenza etnica o
religiosa? Due definizioni logicamente in contraddizione tra
loro che nella pratica cercano di bilanciarsi in un equilibrio
fragile e precario. Sostenere un qualche diritto "ufficiale"
della diaspora a far sentire la propria voce a proposito della
politica israeliana e di conseguenza da parte di Israele un
qualche dovere "ufficiale" di ascoltare la diaspora non rischia
di far pendere pericolosamente la bilancia a favore della
percezione di Israele come stato degli ebrei e, di conseguenza,
di legittimare la percezione degli israeliani non ebrei come
cittadini di serie B? Ma se crediamo che la democrazia sia un
valore imprescindibile non possiamo legittimare in nessun modo -
né direttamente né indirettamente - l’idea che alcuni cittadini
israeliani (gli ebrei) siano più israeliani degli altri. Non è
un problema teorico campato per aria: ai tempi di Oslo si sono
sentiti (anche nelle nostre Comunità) molti discorsi secondo cui
gli accordi di pace non erano legittimi perché non erano stati
votati dalla maggioranza degli ebrei! Anche in futuro eventuali
maggioranze parlamentari favorevoli alla pace e alla nascita di
uno stato palestinese si otterranno grazie al voto dei deputati
arabi. Perché dovremmo offrire un’arma teorica a chi vorrà
dichiararle illegittime?
Tra
l’altro, non mi pare affatto scontato che la maggioranza
dell’opinione pubblica diasporica sia più moderata della
maggioranza degli israeliani; e se anche in questo momento lo
fosse, in un futuro non troppo lontano le cose potrebbero
rovesciarsi, anche perché gli arabi israeliani potrebbero
decidere di andare a votare in massa e far sentire di più il
proprio peso numerico tutt’altro che irrilevante.
È
discutibile ma coerente la posizione di coloro che credono che
Israele sia prima di tutto lo stato degli ebrei e che il
possesso o meno della cittadinanza sia un fatto secondario. Meno
coerenti mi sembrano quegli ebrei che, pur vedendo correttamente
i pericoli di razzismo e mancanza di democrazia insiti in questa
concezione "religiosa" di Israele, pur denunciando le
discriminazioni che i cittadini israeliani non ebrei talvolta
subiscono, inspiegabilmente poi cadono nella trappola di
ragionare anche loro in termini "religiosi", sentendosi
investiti di una sorta di ruolo profetico che comporta il dovere
di giudicare Israele con particolare severità. Ma chi sogna uno
stato di Israele pienamente laico e democratico non dovrebbe
trovarsi troppo a proprio agio nei panni del profeta.
Sia
chiaro, non solo non sto dicendo che non si debba criticare
Israele (come si critica qualunque altro paese), ma non intendo
neppure negare che soggettivamente ciascuno di noi senta un
legame fortissimo e si senta particolarmente coinvolto dalle
vicende israeliane, ma, appunto, si tratta di percezioni
soggettive, che a mio parere dovrebbero essere tenute separate
(o,per lo meno, chiaramente distinte) dall’azione politica.
Viceversa, in cambio della cittadinanza israeliana che non
abbiamo, mi pare che talvolta tendiamo a dimenticarci di quella
italiana che abbiamo. In quanto cittadini italiani siamo
pienamente legittimati a intervenire nel dibattito pubblico: se
sentiamo esponenti politici esprimere contro Israele giudizi
sproporzionatamente severi o affermare vere e proprie falsità,
abbiamo il diritto-dovere di far sentire la nostra voce, non
perché ci siamo autoattribuiti il ruolo di ambasciatori
d’Israele in Italia, e neppure in quanto ebrei che difendono lo
stato ebraico, ma in quanto italiani desiderosi di fare tutto
ciò che è in loro potere per indirizzare correttamente la
politica estera del proprio paese; allo stesso modo possiamo far
sentire la nostra voce di cittadini italiani a favore della
nascita di uno stato palestinese o in difesa degli arabi
israeliani.
I
nostri sentimenti di appartenenza al popolo ebraico e di
vicinanza allo stato d’Israele sono comunque innegabili e
imprescindibili. Ma proprio perché vogliamo il bene di Israele
come stato democratico mi domando se non dovremmo fare più
attenzione a non spingerlo inconsapevolmente, con la nostra
stessa pretesa di aver voce in capitolo, nella direzione
opposta.
Non
pretendo di avere la risposta: ho espresso un disagio personale.
Mi farà piacere leggere altre opinioni su questo tema.
Anna
Segre
Natura morta, olio su tela (Marc
Chagall)
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