Moni Ovadia : Antisemitismo e antisionismo fra usi impropri e propaganda

 
 
Di Moni Ovadia (Pagina Ufficiale) su FB
Antisemitismo e antisionismo fra usi impropri e propaganda

Il conflitto israelo-palestinese è uno dei problemi centrali del nostro tempo sul piano reale ma ancor di più sul piano della percezione simbolica anche se, tutto sommato, riguarda un numero limitato di persone rispetto alle moltitudini dei grandi scacchieri incandescenti. Perché è tanto importante?
A mio parere perché, oltre alle ragioni fattuali che lo definiscono, evoca ripetutamente nella dimensione fantasmatica, lo spettro dell'antisemitismo, quello del suo esito catastrofico, la Shoà, ma anche quello del suo doppio negativo, la vittima che diventa carnefice. La Shoà, non solo ha espresso in sé il male assoluto, ma ha cambiato definitivamente la nostra visione antropologica del mondo e ha sconvolto le categorie del pensiero e del linguaggio. Oggi, la memoria della Shoà entra nel conflitto sul piano dell'immaginario producendo rebound psicopatologici che mettono in scacco non solo il dialogo fra posizioni diverse, ma la possibilità stessa di elaborare un approccio critico, senza provocare reazioni isteriche o furiose. Molti ebrei, in Israele e nella diaspora, reagiscono psicologicamente ad ogni riflessione severa come se, invece di vivere a Tel Aviv o a Parigi nel 2014, vivessero a Berlino nel 1935. Ora, essendo ebreo anch'io, per dovere di onestà intellettuale è giusto che dichiari la mia posizione perché essa è tutt'altro che neutrale: sostengo con piena adesione i diritti del popolo Palestinese, non contro Israele, ma perché il suo riconoscimento è, a mio parere, precondizione per ogni trattativa che porti alla pace. Ritengo che la responsabilità principale (non unica) dell'attuale disastro, abbia origine nella cinquantennale occupazione da parte dell'esercito e dell'Autorità israeliana e la relativa illegittima colonizzazione delle terre che appartengono ai palestinesi secondo i decreti della legalità internazionale. Su Gaza, l'"occupazione" è esercitata sempre da parte dell'autorità civile e miltare di Israele, con un ininterrotto assedio e comporta il totale controllo dell'entrata e uscita delle merci e delle persone, dello spazio aereo, dello spazio marittimo, delle risorse idriche, di quelle energetiche e persino dell'anagrafe. I tunnel, in qualche misura, sono una risposta a questo stato di cose. I missili lanciati contro la popolazione civile di Israele, sono atto di guerra illegale - secondo le convenzioni internazionali -, ma non si può far finta di dimenticare che un assedio è esso stesso un atto di guerra. È stata pratica sistematica degli ultimi governi israeliani, il mantenimento dello status quo attraverso la politica dei fatti compiuti e il mantenimento dello status quo impedisce, de facto, ogni altro sbocco come quello della trattativa. Lo dimostra inequivocabilmente il reiterato nulla di fatto con Abu Mazen che, in cambio della sua superdisponibilità a trattare, ha ricevuto solo umiliazioni anche dal finto mediatore statunitense. Ora, la politica dello status quo, significa contestualmente il suo peggioramento e l'ineludibile scoppio dei ciclici conflitti con Hamas che terminano inevitabilmente con la devastazione di Gaza, una micidiale conta di vittime civili palestinesi e, fortunatamente sul piano umanitario, un esiguo numero di vittime israeliane, soprattutto militari. Ciò non significa che non siano vittime e che la loro morte non sia un lutto. Gli zeloti pro israeliani quando ascoltano o leggono queste mie opinioni critiche come quelle qui argomentate per sommi capi, reagiscono immancabilmente con insulti, maledizioni e invettive di tono assertivo e mai motivate. Il genere è: "sei un rinnegato, nemico del popolo ebraico, ebreo antisemita o ebreo che odia se stesso". La critica da parte di un ebreo della diaspora alla politica di governi israeliani può essere considerata tradimento, antisemitismo o odio verso se stessi solo se collocata nel quadro di un'identificazione nazionalista di ebreo, israeliano, popolo ebraico, popolo d'Israele, Stato d'Israele, suo governo e "terra promessa". Ma se qualcuno osa fare notare, da posizioni critiche, tale pericolosa identificazione, ecco arrivare addosso all'incauto le accuse infamanti di antisemita o antisionista che, per molti "amici di Israele" - anche persone di indiscutibile livello culturale -, sono la stessa cosa. Il carattere fantasmatico della percezione della critica come minaccia, innesca irrazionali reazioni furiose che producono alluvioni di tweet, di mail rivolte agli organi di stampa e di esternazioni su Facebook dove il diritto all'incontinenza mentale, è garantita dell'indipendenza della rete. L'ossessione della nuova Shoà dietro alla porta, scatena processi di permanente vittimizzazione che si sinergizzano con i complessi di colpa occidentali, legittimando un' "industria dell'Olocausto" che fa un uso strumentale e ricattatorio della memoria dell'immane catastrofe per fini di propaganda, come bene spiega un saggio fondamentale di Norman Finkielstein, uno scrittore ebreo statunitense. Questa, a mio parere, è una delle derive più allarmanti e ciniche della memoria stessa a cui si prestano non pochi politici europei reazionari o ex-post fascisti, magari facendosi intervistare all'uscita da una visita al memoriale di un lager nazista per dichiarare: "Mi sento israeliano!". Questo è un modo per trarre "profitto" dall'orrore a vantaggio degli eredi delle classi politiche europee che non si opposero allora al nazismo e all'antisemitismo e oggi lasciano sguazzare indisturbati, nell'Europa comunitaria, neonazisti di ogni risma.
L'infame Europa del mainstream delle sue classi dirigenti conservatrici, allora stette a guardare lo sporco lavoro dei nazisti collaborando o, nel migliore dei casi, rimanendo indifferenti, mentre si sarebbero potute opporre, come dimostrano i casi della Bulgaria e della Danimarca. Dopo la guerra questi signori hanno progressivamente trattato "il problema ebraico" "esportandolo" con piglio colonialista in Medioriente. Oggi cercano credibilità e verginità israelianizzando tout court l'ebreo con una mortificante omologazione.
A questa operazione, si prestano purtroppo le dirigenze della gran parte delle istituzioni ebraiche, come recentemente ha dimostrato il caso della cantante Noah. L'artista israeliana doveva tenere un concerto a Milano organizzato dall'Adei Wizo, un'organizzazione femminile ebraica. Ma Noà, per il solo fatto di avere espresso l'opinione che lа colpa dell'ultimo conflitto di Gaza era degli estremisti delle due parti, si è vista cancellare il concerto. Questo episodio dimostra che neppure una dichiarazione decisamente equilibrata, neanche se fatta da una cittadina israeliana, sia accettabile per chi vuole omologare l'ebreo all'israeliano, salvo poi infuriarsi indignato con chi smaschera l'intento. Dall'altra parte, ultras "filopalestinesi" si esercitano nella gratificante impresa per le loro viscere intemperanti di fare di Auschwitz, del nazismo e della svastica, oggetti contundenti da scagliare contro l'ebreo in Israele e spesso contro l'ebreo tout court, ma soprattutto contro il vagheggiato ebreo onnipotente della mitica lobby ebraica. L'intento è quello di dimostrare che Israele è come la Germania di Hitler e che gli ebrei si comportano come SS. Sotto sotto c'è la vocazione impossibile e sconcia di pareggiare i conti per neutralizzare il deterrente della Memoria. Ma questa sottocultura pseudopolitica, prima di scandalizzare, colpisce per la sua deprimente rozzezza. Sarebbe facile dimostrare l'assurdità di simili farneticazioni, inoltre finisce sempre per rivelarsi una sorta di boomerang che danneggia la causa palestinese, favorendo facili operazioni di contro propaganda da parte israeliana. Tutto ciò, poco interessa a chi deve placare il proprio narcisismo militante, inoltre, questo tipo di militanza che si esprime con slogan di "estrema sinistra" fatta di cartelli e frasi "scandalose" e di roghi di bandiere, ha inquietanti punti di contatto con quella dei neonazisti che, pur di soddisfare la loro inestinguibile sete di antisemitismo, si iscrivono fra gli ultras filopalestinesi. Per denunciare l'oppressione del popolo palestinese e le stragi di civili da parte delle forze di difesa israeliane, ci sono un linguaggio puntuale e concetti giuridici elaborati dal diritto internazionale. È dissennato proiettare l'immaginario della memoria della Shoà in paragoni inaccettabili. Anche i proclami di antisionismo sono poco sensati, poco centrati e non tengono conto delle articolazioni del fenomeno e delle sue evoluzioni. A mio parere, il sionismo in quanto tale, si è estinto da un pezzo. Anche di esso sono rimaste proiezioni fantasmatiche mentre, nella realtà, l'ideologia della destra reazionaria dominante in Israele, è un ultranazionalismo della "grande Israele" compromesso con il fanatismo religioso. Del sionismo è rimasto lo spirito dell'equivoco slogan delle origini: "un popolo senza terra per una terra senza popolo". Ancora oggi a distanza di più di un secolo, falliti gli sforzi di vedere il popolo che c'era già in quella terra tentati dalle forze di ispirazione socialista, la destra reazionaria di Netanyahu ha reimbracciato quella miopia militante che vorrebbe cancellare, nei palestinesi, lo status di nazione e di popolo. In questi ultimi giorni, perfino il falco Bibi, mettendo la mordacchia ai più falchi di lui nel suo governo, ha intuito che nella sanguinosa polveriera mediorientale, una tregua "duratura e permanente" con Hamas è più auspicabile che far scempio di civili innocenti.
Secondo me, ciò di cui c'è vitale bisogno in Israele per uscire dalle logiche perverse del furore e della forza, è che la sua classe dirigente si armi di coscienza critica e di lungimirante pragmatismo per dismettere vittimizzazione e propaganda e ascoltare anche le critiche più dure come un contributo e non come un pericolo. Certo, una tregua non fa primavera né la fa una manifestazione della fragile opposizione che in giorni recenti è coraggiosamente tornata a mostrarsi in piazza Rabin per fare ascoltare una lingua diversa da quella dello sciovinismo militare. Ma sono barlumi di una possibile alternativa all'asfissia della guerra.

Per gentile concessione de "Il Fatto Quotidiano"

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