Sergio Yahn :GAZA. “A vincere è Bibi, la fenice che risorge dai suoi fallimenti”





di Chiara Cruciati – Il Manifesto

Gerusalemme, 16 luglio 2014, Nena News – Mentre Gaza vive le sue quotidiane ore di terrore, a Tel Aviv ieri era la tensione politica a farla da padrone in attesa della riunione notturna del consiglio dei ministri. Israele uscirà vittorioso dall’offensiva contro la Striscia? Un vincitore – almeno in parte – c’è. «È Benjamin Netanyahu, una fenice che rinasce dalle sue stesse ceneri», ci spiega l’analista e giornalista israeliano, Sergio Yahni.

Quali sono i fattori interni che hanno spinto all’operazione contro Gaza? Netanyahu subiva pressioni forti da partiti come Casa Ebraica e falchi come Lieberman.

Uno degli obiettivi di un’offensiva pianificata da tempo è la necessità di un rafforzamento del premier Netanyahu. L’asso nella manica del mago Bibi che, con una coalizione di governo difficilmente gestibile, ha trovato il modo per annientare gli alleati-avversari. Sono marionette senza rendersene conto. Prendete Lieberman: ha lasciato il partito tandem Likud-Beitenu del premier due giorni prima dell’offensiva. Ora la sua figura è irrilevante. È chiaro che Netanyahu non si è mai consultato con Lieberman. Né con Bennett o gli altri partiti nazionalisti: sono fuori dalla discussione. Il loro no alla proposta di tregua di ieri mattina è un no dovuto, ma non mette in pericolo l’esecutivo. È un gioco del premier e del suo ministro della Difesa, Ya’alon. Se in futuro si dovesse giungere ad una vera tregua che penalizzi Israele, il governo potrebbe cadere. Altrimenti no. Se parte l’offensiva via terra, saranno tutti costretti a sostenere Netanyahu. Ormai l’opposizione a Bibi non esiste più, ha creato una crisi per uscire dalla sua.

Ovviamente la giustificazione migliore è stato il caso dei tre coloni. Lo Shin Bet (i servizi segreti interni, ndr), l’esercito e il governo hanno trovato la migliore delle opportunità per distruggere Hamas in Cisgiordania e il governo di unità nazionale con Fatah. Allo stesso tempo hanno messo in piedi una campagna propagandistica per provocare un’escalation di violenza dentro la società israeliana, contro i palestinesi in generale e Hamas in particolare. Il modo migliore per dare sfogo a questa pentola a pressione di rabbia era un nuovo attacco a Gaza. Quello che resterà alla fine dell’operazione è l’eccezionale incremento del tasso di razzismo nella società, passato ad un livello superiore: ormai è istituzionalizzato.

All’esterno Israele aveva bisogno di rompere l’unità Hamas-Fatah e chiudere nel modo più pulito possibile il negoziato. A ciò si aggiunge la comunità internazionale e la sorta di “isolamento” subito negli ultimi mesi.

Israele è uscito dalla crisi internazionale che stava vivendo a causa del fallimento dei negoziati di pace inventandosi una guerra con Hamas e costringendo così Usa e Ue a sostenerlo. Ma quello che viviamo è un momento estremamente pericoloso. Questo cessate il fuoco è un trucco e una trappola per Hamas. Se accetta la tregua senza garanzie (nemmeno quella di una successiva negoziazione) ha perso; se la rigetta regala a Israele la legittimità di continuare un’offensiva di terra, una legittimità doppia a livello internazionale e interno.

Questo è l’obiettivo israeliano: distruggere Hamas, cancellarlo dall’equazione. Non si tratta di un fattore esterno, ma interno. Come diceva Kissinger, Israele non ha una politica estera, ma solo interna. Qual è l’obiettivo? Creare un’entità palestinese (si badi bene, non uno Stato sovrano) che amministri la Cisgiordania e un’entità che amministri la Striscia. Due entità totalmente separate. Per Israele esistono tre tipi di palestinesi: gli arabi residenti in Cisgiordania, i gazawi e gli arabi cittadini israeliani. Il discorso in sé è un processo quasi filosofico, non nuovo, ma cominciato anni fa nei circoli intellettuali: rompere l’identità unica del popolo palestinese in tre comunità separate e quindi gestibili.

Nel sistema politico israeliano nessuno accetta l’idea di uno Stato palestinese sovrano, ma solo un’entità amministrativa. Si tratta di una questione nata dopo l’omicidio di Rabin, alla fine del 1995: da allora Tel Aviv punta alla creazione di piccole entità amministrative che da una parte gli tolgano il peso dei costi dell’occupazione, ma che dall’altra non godano di alcun sovranità su risorse o confini. Per questo ha bisogno di Fatah e di Abbas, ma deve cancellare Hamas.

Sabato Tel Aviv è stata teatro di una violenta aggressione contro la manifestazione organizzata dalle forze di sinistra. È parte di quell’estremizzazione interna di cui parlava prima?

A Tel Aviv la manifestazione è stata attaccata dalla polizia e da gruppi che vantano una sorta di gemellaggio con i neonazisti europei. Un’assurdità. Ma a me viene da criticare la sinistra stessa. E in particolare il partito comunista, che in Israele è misto, formato sia da ebrei israeliani che da palestinesi israeliani. Per mere questioni strategiche, il partito ha spaccato una sinistra già divisa. Nel caso della manifestazione di sabato, gli ebrei hanno deciso di aderire alla manifestazione di Tel Aviv con il partito moderato Meretz, i palestinesi a quella di Jaffa con il partito arabo Balad. I cosiddetti comunisti sapevano che i “bianchi” di Tel Aviv si sarebbero rifiutati di manifestare a Jaffa, anche se di sinistra o moderati. Così sono uscite fuori due manifestazioni separate che hanno lanciato un messaggio debolissimo. A vincere, ancora una volta, è il mago Netanyahu.

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