David Grossman :Siamo prigionieri in una bolla d'odio, ma questo conflitto ci spinge a cambiare"
REPUBBLICA di oggi, 28/07/2014, a pag. 12
La situazione in
cui sono intrappolati israeliani e palestinesi assomiglia sempre di più a
una bolla ermetica, sigillata. In questa bolla, con gli anni, entrambe
le parti hanno messo a punto giustificazioni convincenti e raffinate per
qualunque azione da esse intrapresa. Israele può dire, a ragione, che
nessun Paese al mondo rimarrebbe immobile di fronte agli incessanti
attacchi di Hamas, o alla minaccia dei tunnel sotterranei. E Hamas, dal
canto suo, giustifica gli attacchi contro lo Stato ebraico sostenendo
che il suo popolo è ancora sotto occupazione e che i cittadini della
Striscia di Gaza languono a causa del blocco imposto da Israele.
IN UNA situazione in cui i
cittadini israeliani si aspettano che il loro governo faccia qualunque
cosa perché nessun bambino rimanga vittima di un commando di Hamas che
spunta da sottoterra nel mezzo di un centro abitato limitrofo alla
Striscia, chi mai potrebbe discutere con loro? E cosa risponderemo alla
gente bombardata di Gaza che sostiene che le gallerie e i razzi sono le
ultime armi che ha a disposizione per contrastare una potenza come
Israele? Dentro a questa bolla ermetica, crudele e disperata, ciascuna
delle parti, ognuna dal suo punto di vista, ha ragione. Ciascuna
obbedisce alla legge della bolla: quella della violenza e della guerra,
della vendetta e dell’odio.
La domanda più importante che dovremmo
porci ora, in piena guerra, non concerne gli orrori che si verificano
ogni giorno. Dovrebbe piuttosto essere questa: com’è possibile che da
oltre cento anni noi e i palestinesi soffochiamo insieme dentro questa
bolla? Siccome non posso porre questa domanda ai rappresentanti di
Hamas, e non ho la presunzione di capire il loro modo di pensare, la
faccio ai dirigenti del mio paese, all’odierno primo ministro e ai suoi
predecessori: come avete fatto a sprecare il tempo trascorso dall’ultimo
conflitto senza intraprendere nessuna iniziativa di dialogo, senza
tentare un approccio con Hamas per cercare di cambiare
l’esplosiva realtà tra noi? Perché Israele, negli ultimi anni, ha
intenzionalmente evitato di avviare un negoziato con la parte più
moderata e aperta al dialogo del popolo palestinese, anche solo per fare
pressione su Hamas? Perché per dodici anni ha ignorato l’iniziativa
della Lega Araba che avrebbe potuto coinvolgere Paesi arabi moderati e
imporre forse un compromesso a Hamas? In altre parole, come mai, per
decenni, i governi israeliani non sono stati in grado di pensare al di
fuori della bolla?
Eppure, malgrado tutto, nell’attuale
confronto tra Israele e Gaza c’è qualcosa di diverso. Al di là dei toni
infiammati di alcuni politici che fomentano il fuoco della guerra e
dietro alla grande messinscena di “unità” — in parte genuina, ma per lo
più artefatta — della popolazione israeliana, accade qualcosa che riesce
a incentrare l’attenzione di molti israeliani su un meccanismo alla
base di tutta la “situazione”, un meccanismo di ripetitività sterile,
letale.
Qualcosa, in questo ciclo di violenza, di
vendetta e di contro-vendetta, rivela a molti israeliani un’immagine
che finora avevamo rifiutato di riconoscere. Improvvisamente riusciamo a
vedere con brutale chiarezza il ritratto di Israele: un Paese audace,
con fantastiche capacità creative e di inventiva, che da più di cento
anni gira intorno alla macina di un conflitto che avrebbe potuto essere
risolto anni fa. Se rinunciassimo per un momento
a considerare le ragioni e le motivazioni con le quali ci proteggiamo
da sentimenti di compassione e di semplice umanità verso i moltissimi
palestinesi le cui vite sono sconvolte da questa guerra, forse
riusciremmo a vederli girare insieme a noi, all’infinito, intorno a
questa macina, accecati e intorpiditi dalla disperazione.
Non so cosa pensino esattamente i
palestinesi in questi giorni, che cosa pensi la gente di Gaza. Sento
però che Israele sta maturando. Con dolore, con sofferenza, digrignando i
denti, Israele cresce. O meglio, è costretto a crescere. Nonostante le
dichiarazioni bellicose e i proclami infiammati di politici e di
commentatori, al di là delle feroci invettive di energumeni della destra
contro chi la pensa diversamente da loro, al di là di tutto questo, il
flusso centrale dell’opinione pubblica israeliana sta acquistando
lucidità.
La sinistra è più consapevole
dell’intensità dell’odio verso Israele (che non deriva solo
dall’occupazione), della minaccia dell’integralismo islamico e della
fragilità di qualunque accordo verrà firmato. Molte più persone, a
sinistra, capiscono oggi che i timori e le ansie degli esponenti della
destra non sono soltanto paranoie ma scaturiscono da una concreta
realtà. Spero che anche la destra riconosca — seppure con rabbia e
frustrazione — i limiti della forza, il fatto che anche un Paese forte
come il nostro non può agire unicamente secondo la propria volontà e
che, nell’epoca in cui viviamo, non ci sono più vittorie inequivocabili.
Ci sono soltanto “fotogrammi di vittoria” che lasciano il tempo che
trovano e il cui negativo ci mostra che nelle guerre ci sono unicamente
perdenti e non esiste una soluzione militare al reale malessere del
popolo che abbiamo di fronte. E fintanto che il senso di soffocamento
della gente di Gaza non si dissiperà nemmeno noi, in Israele, potremo
respirare con agio, con entrambi i polmoni.
Noi israeliani lo sappiamo da decenni, e
da decenni ci rifiutiamo di capirlo. Ma forse, questa volta, lo abbiamo
capito un po’ di più, oppure, per un momento, abbiamo visto la nostra
vita da una prospettiva un po’ diversa. È una comprensione dolorosa, e
sicuramente minacciosa, ma potrebbe essere l’inizio di un cambiamento e
indicare agli israeliani la necessità impellente, l’urgenza di
raggiungere una pace con i palestinesi come piattaforma per
un’intesa anche con gli altri Stati arabi. Potrebbe mostrare la pace —
così disprezzata oggi — come l’opzione migliore e più sicura fra quelle a
disposizione. Anche Hamas maturerà una comprensione del genere? Non
posso saperlo. Ma la maggior parte del popolo palestinese, rappresentato
da Mahmoud Abbas, ha già optato, in pratica, per l’abbandono del
terrorismo e per il negoziato. E potrà il governo israeliano dopo i
recenti, sanguinosi scontri e la perdita di tanti giovani a noi cari,
esimersi dal tentare almeno questa strada? Continuare a ignorare Mahmoud
Abbas come elemento essenziale per la soluzione del conflitto?
Continuare a rinunciare alla possibilità di un accordo con i palestinesi
in Cisgiordania che conduca a un graduale miglioramento dei rapporti
con il milione e 800mila abitanti di Gaza?
In quanto a noi, in Israele, non appena
la guerra sarà terminata, dovremo cominciare a creare un nuovo tipo di
solidarietà che modifichi il quadro degli odierni, ristretti interessi
settoriali. Una solidarietà fra coloro che sono consapevoli del pericolo
mortale di continuare a girare la macina. Fra coloro che capiscono che
le linee di confine oggigiorno non sono più tra arabi ed ebrei ma tra
chi aspira a vivere in pace e chi invece si nutre, emotivamente e
ideologicamente, di violenza e ne vuole il proseguimento. Sono convinto
che in Israele ci sia ancora una massa critica di persone, di sinistra e
di destra, religiosi e laici, ebrei e arabi, in grado di approvare, in
maniera coerente e senza farsi illusioni, tre o quattro punti di un
accordo per una soluzione del conflitto con i nostri vicini. Molti
“ricordano ancora il futuro” (un ossimoro, una locuzione strana, ma
azzeccata in questo contesto) che desiderano e che augurano a Israele e
alla Palestina. C’è chi si rende conto (chissà per quanto tempo ancora)
che, se ci faremo sopraffare dall’apatia, se lasceremo le cose in mano
agli altri, ci sarà chi ci trascinerà tutti, con fermezza e impeto,
nella prossima guerra e, strada facendo, attizzerà ogni possibile
focolaio di scontro nella società israeliana. E noi tutti, israeliani e
palestinesi, continueremo a girare con gli occhi bendati, a testa china,
accomunati dalla disperazione e intorpiditi dalla stupidità, intorno
alla macina del conflitto che frantuma e polverizza le nostre vite, le
nostre speranze e la nostra umanità.
( Traduzione di Alessandra Shomromi)
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