ROMA - Sentirsi dire di tornare a casa propria quando a
casa propria ci si è già: è successo ad Antonino, Fatima, Sabika, Majda,
e ad altre centinaia di migliaia di cittadini italiani di fede
musulmana, quando Matteo Salvini, segretario federale della Lega Nord ed
eurodeputato, ha invitato i musulmani che desiderano una moschea a
Milano a tornare nel proprio paese.
Antonino di Cola |
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La nostra casa. “Se per ‘casa mia’si
intendela Sicilia, sono contentissimo di costruirla qui, la moschea,”
ironizza Antonino di Cola. Nato e cresciuto a Palermo, Antonino vive a
Trapani da 17 anni, dove si è trasferito, con la moglie, per lavorare in
un cantiere navale. Ha abbracciato la religione musulmana quindici anni
fa, dopo avere conosciuto l’Islam sui libri e fa parte, insieme alla
moglie, di quei 70mila italiani convertiti citati dalle statistiche
Ucoii (Unione delle Comunità e Organizzazioni Islamiche in Italia).
Fatima Palmulli, invece, è musulmana da sempre. Il padre, pugliese di
Foggia, si è convertito nel 1979, durante la rivoluzione iraniana.
Fatima ha studiato Lingue a Milano e ora vive a Como, con il marito e
una bambina di tre anni. “Bisogna capire che siamo coinquilini, non condomini,”
commenta infastidita dal fatto che i musulmani siano ancora considerati
cittadini di serie B.Anche SabikaShahPovia, giornalista nata a Roma da
genitori pakistani, rivendica la sua identità italiana: “Mio nonno si
chiama Francesco Povia ed è italiano. Questa è la mia casa.” Ma non
dimentica chi in Italia ci vive da meno tempo e, non per questo, ha meno
diritti e doveri: “Ci
sono persone che scelgono di venire qui e di rendere questa la loro
casa, ed è giusto che abbiano un loro spazio da poter gestire
liberamente.”MajdaAyoubi,
arrivata in Abruzzo dal Marocco quando aveva 10 anni, è tra queste.
Majda studia Lingue per l’impresa e la cooperazione, lavora come
mediatrice culturale al policlinico di Milano, ed è cittadina italiana a
tutti gli effetti. “Ormai la religione non può più essere associata a
un paese, la multiculturalità è sempre più diffusa. Così come in Marocco
adesso si stanno costruendo chiese o sinagoghe, così in Italia ci
devono essere luoghi di culto per tutti.”
Fatima Palmulli |
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Pregare in uno scantinato. Sulla
carta, infatti, è così. L’articolo 19 della costituzione sancisce il
diritto di professare la propria religione, in forma associata, in un
luogo pubblico. Ma la situazione dei luoghi di culto non cattolici nel
nostro Paese è “surreale”, per dirla con le parole di Paolo Branca,
docente di Lingua e Letteratura Araba e di Islamistica presso
l'Università Cattolica di Milano. In Italia esistono circa 800 luoghi di
culto islamici, di cui solo alcuni sono moschee vere e proprie. Il
resto sono garage, magazzini, e stanze in affitto. Mancando una legislazione chiara e organica sui luoghi di culto non cattolici, le comunità musulmane pregano dove riescono.
“Nascono come associazioni culturali e poi vengono trasformati in
luoghi di preghiera, finché le autorità locali li bloccano perché quella
non era la destinazione d’uso prevista,” spiega professor Branca. “Uno
si arrangia come può in attesa che arrivi una sanatoria che magari, tra
10 o 20 anni, ti dirà di pagare una multa. E poi tutto quello che era
clandestino diventa ufficiale.” A dicembre, una sentenza del Tar della
Lombardia ha bocciato il piano urbanistico di Brescia perché non
prevedeva luoghi di culto per non cattolici, ignorando così i bisogni di
una parte dei cittadini. Sotto questa luce, non sembra strano che, pur
vivendo a Roma, Sabika sia cresciuta senza punti di riferimento
religiosi. La moschea grande a Roma – troppo chiusa, troppo lontana
dalla sua vita quotidiana – non l’ha mai frequentata tanto. E le
famiglie pakistane preferivano riunirsi in ambasciata, o tra di loro.
Sabika ora frequenta il Centro Imam Mahdi, aperto da ragazzi italiani
convertiti. Rapportarsi con un imam giovane e toscano è più facile rispetto a parlare con chi cita i sauditi,
spiega Sabika.“Lo scambio di idee – continua – è importante: serve a
interrogarsi sul perché si fanno certe cose e, soprattutto, a trovare
una risposta.” Anche in Abruzzo, racconta Majda, alcune associazioni
affittano garage e li trasformano in luogo di preghiera, ma il numero
non è sufficiente per offrire a tutti i musulmani un centro di raduno.
“Si riuniscono il sabato, ma non organizzano atti terroristici –
assicura Majda– mia mamma ci va”.
Majda Ayoubi |
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Pregiudizi e paure. Majda scherza, ma non troppo. Sa
che la paura del terrorismo è alla base dell’ostilità di molti italiani
nei confronti della comunità musulmana. I retaggi dell’11 settembre si
fanno sentire ancora dopo 13 anni, e i cristiani uccisi in Nigeria fanno
più rumore delle vittime civili da parte delle forze straniere in
Afghanistan. La moschea viene quindi sempre vista con fastidio
dall’opinione pubblica e chi, tra le forze politiche, la concede perde
consensi facilmente. Oltre alla paura del terrorismo, è anche il timore
di perdere le proprie tradizioni a provocare chiusure e ostilità nella
società. La globalizzazione sta sfumando le differenze tra le diverse
identità culturali e territoriali, una volta ben definite. “Questo aggrapparsi a false identità è un modo di rassicurarci di fronte a cambiamenti che non si ha tempo di assimilare,”
commenta il professor Branca. La pubblicazione, il mese scorso, di un
suo articolo sull’etimologia araba di alcuni vocaboli italiani ha
provocato commenti inferociti da parte di italiani. Mal interpretando e
spostando l’attenzione dalla lingua all’identità, molti lettori si sono
offesi per essere stati considerati arabi.
Sabika Shah Povia |
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Una visione unica e univoca. I
media non aiutano. “Danno una visibilità enorme a una minoranza di
musulmani fondamentalisti . Questa è l’unica voce che viene ripresa e
ascoltata.
Gli altri, quelli che lavorano e fanno una vita normale, non esistono,
nessuno ne parla. Di conseguenza, anche dal punto di vista politico, non
hanno peso, non possono far valere le loro ragioni,” commenta il professor Branca. “E’ gravissimo, ma da questa visione unica e univoca non si riesce più a uscire.”
Per un padre musulmano che uccide la figlia perché indossa la
minigonna, ne ignorano altre centinaia di migliaia che non lo fanno.
Quanti immaginerebbero che un quarto dei bambini che frequentano le
attività dell’oratorio della Diocesi di Milano è di fede musulmana?
Quanti direbbero che in Italia ci sono più immigrati cristiani che
musulmani? La sindrome di invasione, accompagnata al pregiudizio dei
musulmani come anti-cristiani, è ancora mantenuta dai media, e le storie
positive spesso non fanno notizia. I casi negativi ci sono. E le
discriminazioni pure. Ma oltre a questo ci sono anche le storie, tante,
di chi, di diversa religione, fa una vita normale, tra famiglia, studio e
lavoro. Le storie di Antonino, Fatima, Sabika e Majda, musulmani a casa
propria, ce lo dimostrano. (Giulia Dessì)
Questo articolo fa parte del progetto Our Elections Our Europe (Oeoe),
che, attraverso il monitoraggio della stampa prima delle elezioni
europee 2014, identifica dichiarazioni incitanti alla discriminazione da
parte di politici e risponde in modo creativo attraverso articoli,
vignette satiriche, radio storie, flash mob e una campagna internazionale sui social media. Oeoe è realizzato dal Media Diversity Institute in Gran Bretagna, Symbiosis in Grecia, il Center for Investigative Journalism e CivilMedia in Ungheria e dall'associazione Il Razzismo è una brutta storia in Italia, grazie al sostegno di Open Society Foundations.
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