Yalla Italia : Essere musulmani a casa nostra. In Italia

Moschea, la parola ai musulmani d’Italia

 


Antonino di Cola

La campagna a favore della costruzione del luogo di culto a Milano, in vista dell’Expo 2015, ha aperto un acceso dibattito di pro e contro talvolta sfociato offese contro la comunità islamica. Ne abbiamo parlato con quattro fedeli e con l’islamista Paolo Branca

04 aprile 2014

ROMA - Sentirsi dire di tornare a casa propria quando a casa propria ci si è già: è successo ad Antonino, Fatima, Sabika, Majda, e ad altre centinaia di migliaia di cittadini italiani di fede musulmana, quando Matteo Salvini, segretario federale della Lega Nord ed eurodeputato,  ha invitato i musulmani che desiderano una moschea a Milano a tornare nel proprio paese. 
Antonino di Cola
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La nostra casa. “Se per ‘casa mia’si intendela Sicilia, sono contentissimo di costruirla qui, la moschea,” ironizza Antonino di Cola. Nato e cresciuto a Palermo, Antonino vive a Trapani da 17 anni, dove si è trasferito, con la moglie, per lavorare in un cantiere navale. Ha abbracciato la religione musulmana quindici anni fa, dopo avere conosciuto l’Islam sui libri e fa parte, insieme alla moglie, di quei 70mila italiani convertiti citati dalle statistiche Ucoii (Unione delle Comunità e Organizzazioni Islamiche in Italia). Fatima Palmulli, invece, è musulmana da sempre. Il padre, pugliese di Foggia, si è convertito nel 1979, durante la rivoluzione iraniana. Fatima ha studiato Lingue a Milano e ora vive a Como, con il marito e una bambina di tre anni. “Bisogna capire che siamo coinquilini, non condomini,” commenta infastidita dal fatto che i musulmani siano ancora considerati cittadini di serie B.Anche SabikaShahPovia, giornalista nata a Roma da genitori pakistani, rivendica la sua identità italiana: “Mio nonno si chiama Francesco Povia ed è italiano. Questa è la mia casa.” Ma non dimentica chi in Italia ci vive da meno tempo e, non per questo, ha meno diritti e doveri: “Ci sono persone che scelgono di venire qui e di rendere questa la loro casa, ed è giusto che abbiano un loro spazio da poter gestire liberamente.”MajdaAyoubi, arrivata in Abruzzo dal Marocco quando aveva 10 anni, è tra queste. Majda studia Lingue per l’impresa e la cooperazione, lavora come mediatrice culturale al policlinico di Milano, ed è cittadina italiana a tutti gli effetti. “Ormai la religione non può più essere associata a un paese, la multiculturalità è sempre più diffusa. Così come in Marocco adesso si stanno costruendo chiese o sinagoghe, così in Italia ci devono essere luoghi di culto per tutti.”

Fatima Palmulli
Fatima Palmulli
Pregare in uno scantinato. Sulla carta, infatti, è così. L’articolo 19 della costituzione sancisce il diritto di professare la propria religione, in forma associata, in un luogo pubblico. Ma la situazione dei luoghi di culto non cattolici nel nostro Paese è “surreale”, per dirla con le parole di Paolo Branca, docente di Lingua e Letteratura Araba e di Islamistica presso l'Università Cattolica di Milano. In Italia esistono circa 800 luoghi di culto islamici, di cui solo alcuni sono moschee vere e proprie. Il resto sono garage, magazzini, e stanze in affitto. Mancando una legislazione chiara e organica sui luoghi di culto non cattolici, le comunità musulmane pregano dove riescono. “Nascono come associazioni culturali e poi vengono trasformati in luoghi di preghiera, finché le autorità locali li bloccano perché quella non era la destinazione d’uso prevista,” spiega professor Branca. “Uno si arrangia come può in attesa che arrivi una sanatoria che magari, tra 10 o 20 anni, ti dirà di pagare una multa. E poi tutto quello che era clandestino diventa ufficiale.” A dicembre, una sentenza del Tar della Lombardia ha bocciato il piano urbanistico di Brescia perché non prevedeva luoghi di culto per non cattolici, ignorando così i bisogni di una parte dei cittadini. Sotto questa luce, non sembra strano che, pur vivendo a Roma, Sabika sia cresciuta senza punti di riferimento religiosi. La moschea grande a Roma – troppo chiusa, troppo lontana  dalla sua vita quotidiana – non l’ha mai frequentata tanto. E le famiglie pakistane preferivano riunirsi in ambasciata, o tra di loro. Sabika ora frequenta il Centro Imam Mahdi, aperto da ragazzi italiani convertiti. Rapportarsi con un imam giovane e toscano è più facile rispetto a parlare con chi cita i sauditi, spiega Sabika.“Lo scambio di idee – continua – è importante: serve a interrogarsi sul perché si fanno certe cose e, soprattutto, a trovare una risposta.” Anche in Abruzzo, racconta Majda, alcune associazioni affittano garage e li trasformano in luogo di preghiera, ma il numero non è sufficiente per offrire a tutti i musulmani un centro di raduno. “Si riuniscono il sabato, ma non organizzano atti terroristici – assicura Majda– mia mamma ci va”.
Majda Ayoubi
Majda Ayoubi
Pregiudizi e paure. Majda scherza, ma non troppo. Sa che la paura del terrorismo è alla base dell’ostilità di molti italiani nei confronti della comunità musulmana. I retaggi dell’11 settembre si fanno sentire ancora dopo 13 anni, e i cristiani uccisi in Nigeria fanno più rumore delle vittime civili da parte delle forze straniere in Afghanistan. La moschea viene quindi sempre vista con fastidio dall’opinione pubblica e chi, tra le forze politiche, la concede perde consensi facilmente.  Oltre alla paura del terrorismo, è anche il timore di perdere le proprie tradizioni a provocare chiusure e ostilità nella società. La globalizzazione sta sfumando le differenze tra le diverse identità culturali e territoriali, una volta ben definite.  “Questo aggrapparsi a false identità è un modo di rassicurarci di fronte a cambiamenti che non si ha tempo di assimilare,” commenta il professor Branca. La pubblicazione, il mese scorso, di un suo articolo sull’etimologia araba di alcuni vocaboli italiani ha provocato commenti inferociti da parte di italiani. Mal interpretando e spostando l’attenzione dalla lingua all’identità, molti lettori si sono offesi per essere stati considerati arabi.
Sabika Shah Povia
Sabika Shah Povia
Una visione unica e univoca. I media non aiutano. “Danno una visibilità enorme a una minoranza di musulmani fondamentalisti . Questa è l’unica voce che viene ripresa e ascoltata. Gli altri, quelli che lavorano e fanno una vita normale, non esistono, nessuno ne parla. Di conseguenza, anche dal punto di vista politico, non hanno peso, non possono far valere le loro ragioni,” commenta il professor Branca. “E’ gravissimo, ma da questa visione unica e univoca non si riesce più a uscire.” Per un padre musulmano che uccide la figlia perché indossa la minigonna, ne ignorano altre centinaia di migliaia che non lo fanno. Quanti immaginerebbero che un quarto dei bambini che frequentano le attività dell’oratorio della Diocesi di Milano è di fede musulmana? Quanti direbbero che in Italia ci sono più immigrati cristiani che musulmani?  La sindrome di invasione, accompagnata al pregiudizio dei musulmani come anti-cristiani, è ancora mantenuta dai media, e le storie positive spesso non fanno notizia. I casi negativi ci sono. E le discriminazioni pure. Ma oltre a questo ci sono anche le storie, tante, di chi, di diversa religione, fa una vita normale, tra famiglia, studio e lavoro. Le storie di Antonino, Fatima, Sabika e Majda, musulmani a casa propria, ce lo dimostrano. (Giulia Dessì) 
Questo articolo fa parte del progetto Our Elections Our Europe (Oeoe), che, attraverso il monitoraggio della stampa prima delle elezioni europee 2014, identifica dichiarazioni incitanti alla discriminazione da parte di politici e risponde in modo creativo attraverso articoli, vignette satiriche, radio storie, flash mob e una campagna internazionale sui social media. Oeoe è realizzato dal Media Diversity Institute in Gran Bretagna, Symbiosis in Grecia, il Center for Investigative Journalism e CivilMedia in Ungheria e dall'associazione Il Razzismo è una brutta storia in Italia, grazie al sostegno di Open Society Foundations.


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