La straordinaria normalità di essere palestinesi. Incontro con Emad Burnat

 
Vivere così è un grosso punto di domanda. Non sai mai cosa ti succederà, cosa accadrà ai tuoi figli e ai tuoi cari. Questa è una storia personale, ma è anche quella di tutti noi palestinesi.” Intervista ad Emad Burnat, regista di Five Broken Cameras, per la prima volta in Italia. 

Su questo documentario è stato detto tanto. Per alcuni è stata un’occasione per conoscere la realtà dei Territori Occupati Palestinesi, esposta ancora una volta nella sua più ampia brutalità. Per altri invece questa realtà è stata talmente riportata nella sua riproduzione quotidiana fino a banalizzarla, non lasciando spazio a nuove prospettive o soluzioni di cambiamento D’altronde non poteva esserci carenza di parole su un film candidato come miglior documentario agli Academy Awards 2012, meglio conosciuti con il marchio di garanzia “Oscar”.
A due anni di distanza dalla sua uscita si continua a dire tanto, soprattutto quando c’è la possibilità di vederlo insieme ad uno dei suoi realizzatori, il palestinese Emad Burnat. 
Per la prima volta in Italia, a Bergamo, dopo essere stato dall’altra parte del mondo, in Ecuador, per ritirare l’ennesimo premio*, grazie all’encomiabile sforzo di diversi gruppi della società civile italiana (è importante sottolinearli tutti: il Gruppo Longuelo Terra Santa, Un Ponte Per…, Casa per la Pace di Milano, la professoressa Paola Gandolfi, Iabbok, Kairos e le comunità parrocchiali di Ambivere, Cenate, Sotto, Valtrighe e Mapello), la scorsa settimana Emad ha presentato il suo film e ne ha parlato con il pubblico.
Dagli studenti universitari ai ragazzi del liceo, passando per gli attivisti e per chi di Palestina ha sentito parlare sempre di sbieco: in tutti il film ha suscitato una reazione.
In due giorni Emad è stato letteralmente travolto di domande, di qualsiasi tipo.
Su suo figlio Jibril, la ragione per cui ha scelto di utilizzare per la prima volta una videocamera; sui suoi amici più stretti, sulla politica, sulle azioni creative che vengono portate avanti durante le manifestazioni nel suo villaggio, Bil’in, da qualche anno diventato uno dei punti cardine della resistenza nonviolenta palestinese.
Oppure sono singole scene a suscitare commenti. Ce ne sono tante di significative in Five Broken Cameras. Come quando si vede Adeeb, uno dei protagonisti, che si prepara per andare a una manifestazione del venerdì. C’è lui che si sistema i capelli con il gel e risponde alla domanda di Emad: “Sei contento?”, e lui: “Sì, molto. C’è la manifestazione, ed è come andare a un matrimonio”. Da dove nasce la forza per reagire così? Si chiedono in molti, martedì sera al Cinema Conca Verde di Bergamo.
A tutte queste curiosità però il regista risponde sempre con una premessa. “Prima di tutto il film è una storia personale. E’ la mia storia, quella della mia famiglia, dei miei amici e del mio villaggio. Volevo mostrare la vita normale di singole persone all’interno di un contesto particolare in Palestina.” 
“Normale”, un aggettivo che Emad ripete spesso quando parla, ogni volta dandogli significati diversi. Significa routine, ordinarietà, quando descrive le azioni dell’esercito, che arrestano, espropriano, uccidono, con una sprezzante normalità da molto, troppo tempo.
E’ abitudine “perdere due giorni ogni volta che sono andato all’estero per promuovere il film e andare a ritirare premi: uno all’andata e uno al ritorno, per presentarsi prima in aeroporto per effettuare tutti i controlli ordinari a cui sono sottoposti i palestinesi”.
E’ normale parlare e “incontrare i divi di Hollywood, che sono essere umani come tutti gli altri”. Così come è normale, perché umano, collaborare e relazionarsi con gli israeliani, anche se può essere complesso e controverso.
Ed è in un contesto normale che Osservatorio Iraq incontra Emad.
na passeggiata insieme per le strade di Bergamo e un caffè in centro. Quello che segue fa parte della lunga chiacchierata che abbiamo avuto*, parlando di tanto e di tutto. D’altronde, non poteva essere diversamente.

Dopo due anni in cui il film ti ha permesso di viaggiare in diverse parti del mondo, ti sei fatto un’idea del perché sia piaciuto così tanto?
Me lo sono sempre chiesto, e dopo aver incontrato tanta gente, e aver visto la loro reazione, credo di aver capito il perché, e mi sembra molto semplice. E’ qualcosa che ha a che fare con l’umanità, credo che la gente ovunque nel mondo si sia sentita toccata nel cuore dal documentario. Ci sono tante cose che sappiamo sulla Palestina, mentre Five Broken Cameras è una storia personale, diversa dunque da tanti altri film che sono stati fatti sulla nostra situazione. Questa è la prima volta, secondo me, che la videocamera riprende scene così personali e intime di una storia dalla Palestina – anche perché io non saprei utilizzarla in un altro modo, la videocamera. Ecco, credo siano queste le ragioni per cui il documentario ha ricevuto tanta attenzione e supporto.
Quanto è cambiata la tua vita da allora?
La mia vita è sempre la stessa. Non ci sono stati grandi cambiamenti, soprattutto a livello economico e personale, nel modo in cui mi relaziono con i miei amici e con gli altri. Dopo aver viaggiato così tanto e a lungo, dopo che il documentario ha ricevuto la nomination all’Oscar, molte persone hanno creduto che sarei diventato una star, qualcuno di inavvicinabile e con il quale non è possibile parlare. Invece non è affatto così. Mi piace stare con le persone, conoscerne di nuove, parlare con loro, scambiare idee. Tutto come prima. Vivo nella stessa casa a Bil’in, non sono diventato ricco, né era questa l’intenzione prima di realizzare Five Broken Cameras. A me piace questa vita normale e non vorrei mai diventare una “star”, intesa come un muro invalicabile.
Tra le tante domande che ti hanno posto in questi giorni ce n’è stata una piuttosto ricorrente. Ovvero se dopo il film tu e il mondo della politica vi siate avvicinati, dal momento che oltre a essere una storia personale, è anche la storia di un’Occupazione brutale e opprimente. 
Sì, è vero, ma come ho detto questo avvicinamento non c’è stato. Non sono un amico della politica, che non ha fatto niente per il film e per tutte le violazioni che esso mostra. Ho parlato con il governatore di Ramallah e cercato di contattare l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) a qualsiasi livello, anche i suoi ambasciatori all’estero, provando a convincerli che questo lavoro stava avendo un grande impatto sulle persone e che potevano farne uso per scopi politici per difendere la nostra terra.
Ma non c’è stato niente da fare. All’ANP, ai nostri leader politici, non è importato nulla del film. Ciò che a loro interessa - non solo a mio parere, vi assicuro di riportare un sentimento abbastanza diffuso tra i palestinesi -  è cancellare la memoria di quella che è ed è stata la lotta per la resistenza all’Occupazione e ad Israele. Quello che stanno provando a fare è di dirigere le persone verso un’altra direzione.
Eppure nel 2012, quando è uscito il film, sembravano esserci buone condizioni per un rinnovamento dell’iniziativa politica palestinese, quando la Palestina è stata riconosciuta come Stato Osservatore non membro in seno all’Assemblea Generale ONU. Invece poi l’entusiasmo si è scontrato con la realtà, che ha visto il ritorno dei negoziati, cosa che la popolazione non sembra condividere…
Prima di tutto bisogna chiarire che il riconoscimento all’ONU non ha significato nulla per la popolazione, perché la situazione nella vita di tutti i giorni non è cambiata di una virgola. Non è necessario che lo dica io, parlano i fatti di una realtà sempre più invivibile per noi, per la quale l’ONU e la Comunità internazionale continuano a non fare niente di concreto nei confronti di Israele.
Il ritorno ai negoziati è un’altra questione che poco sta producendo per migliorare le nostre condizioni. Oggi (2 aprile, ndr) leggo che il Segretario di Stato statunitense John Kerry ha cancellato la sua visita in Medio Oriente, dopo che il presidente palestinese Abbas ha firmato 15 convenzioni internazionali con altri Stati in cerca di riconoscimento. E che Israele ha risposto pubblicando altri 700 bandi pubblici per appaltare i lavori per altre unità abitative nelle colonie in Cisgiordania.
Basta questo, che potrebbe comportare la fine dei negoziati, per capire quanto non solo questi ultimi, bensì 20 anni di trattative siano state inutili. Le uniche cose in più che abbiamo sono più colonie, uccisioni, arresti. Questo è tutto.
Come si può, in queste condizioni, continuare a resistere a livello popolare e in modo nonviolento?
Resistere in questo modo è molto importante, e molto efficace, nonostante si possa dire il contrario. Questo tipo di resistenza mi ricorda molto la Prima Intifada, la dimensione popolare della resistenza. Non c’erano armi, non c’erano tattiche di azione, ma c’era una popolazione che non ce la faceva più e che reagì in modo molto forte.
Parliamo del film. Ci sono molti personaggi importanti, ognuno dei quali sembra rappresentare un aspetto diverso della resistenza palestinese. Tra questi ci sono Adeeb e Bassem (“Phil”): cosa rappresentano per te?
Quando è nata l’idea del film, e quindi di riportare la mia storia, ho deciso che ci sarebbe stato tanto di personale. Adeeb e Phil (Phil, soprannome di Bassem Abu Rahme, muore nel 2009, colpito allo stomaco da un lacrimogeno sparato ad altezza uomo. Adeeb attualmente è in carcere e sconta una pena di 18 mesi, ndr) erano i miei amici più stretti, e per questo non potevano non esserci. Conosco Adeeb da quando eravamo piccoli, e insieme abbiamo conosciuto Phil durante le manifestazioni. Lui era amico di tutti, e soprattutto dei bambini, che lo adoravano. Mio figlio Jibril gli voleva molto bene, voleva sempre stare con lui.
Tutto questo fa parte della mia storia, per questo li ho voluti nel film, che è un aspetto per me più importante della loro creatività, determinazione, autoironia e capacità di tenere sempre alto il morale di tutti noi.
Quanto sono importanti queste caratteristiche per la resistenza palestinese?
Adeeb e Phil sono persone straordinariamente attive. Per me hanno un carattere perfetto, perché completo, capace appunto di essere serio e ironico allo stesso tempo, e di proporre sempre cose nuove. Essere innovativi, e apportare nuove idee, è necessario ed è ciò che rende il villaggio di Bil’in così importante per tutto il movimento di resistenza nonviolenta palestinese. Adeeb e Phil in questo hanno contribuito tantissimo. Ed hanno pagato. Phil con la sua stessa vita, e Adeeb con il carcere, di cui lui non ha mai avuto paura: si è sempre trattato di una condanna di uno o due giorni, ai quali reagiva con grande ironia. L’ultima volta però è andata diversamente (sorride, ndr)… e paradossalmente quella volta non aveva fatto nulla!
Il personaggio per eccellenza di “Five Broken Cameras”  è però senza dubbio tuo figlio Jibril, che può anche essere considerato un figlio del film, in quanto lo si vede sin dalla nascita fino alle sue prime partecipazioni alle manifestazioni…
Jibril è stato fondamentale per il film. Senza di lui ci sarebbe stata molta meno attenzione, ne sono certo. Chi lo ha guardato e lo guarderà imparerà a conoscere Jibril, ne scoprirà i primi passi, le prime parole – che saranno “muro”, “esercito”, “proiettili” – e non potrà non innamorarsene. E credo che lo faranno perché vedono un bambino crescere, e penseranno sicuramente ai propri figli.
Molti si sono chiesti anche come si possa crescere in un contesto simile…
Certamente. C’è qualcosa che si muove nei cuori delle persone quando guardano Jibril. E sono convinto che sia proprio questa la forza del film. Perché vedono che mentre tanti altri bambini nel mondo crescono in un ambiente sano, in Palestina succede tutt’altro. Anche se la situazione può cambiare a seconda delle città e dei villaggi, perché le condizioni possono essere molto diverse.
Quello che dici mi fa pensare infatti a quanto ci ha detto lo storico attivista israeliano Michel Warschawsky, proprio a Bil’in, qualche tempo fa. Ovvero quanto la società palestinese sia frammentata, e che in questo abbiano contribuito molto gli Accordi di Oslo. Cosa ne pensi?
Sono d’accordo. Le condizioni dei palestinesi prima degli Accordi erano migliori di quelle attuali. Oslo ha praticamente distrutto la vita della società, dividendoci in palestinesi di serie A, B e C, come sono le divisioni territoriali stabilite dagli Accordi. Che sono stati pensati in modo assolutamente ingegnoso e lungimirante da parte di Israele, che già allora immaginavano il risultato odierno. Tutto l’opposto invece da parte nostra, che ci siamo lasciati dividere e abbiamo pensato alla “sicurezza”. I nostri politici pensavano che attraverso l’autorità esercitata nell’Area A prima o poi sarebbe potuto nascere uno Stato. Ma dov’è?
Altre due figure importanti del film: i tuoi genitori. Sempre in penombra, in una scena li vediamo opporsi con tutte le loro forze all’arresto di tuo fratello, con tuo padre che riesce a trascinarsi sulla jeep dei soldati. Che significato ha quel gesto?
Che la resistenza palestinese continua attraverso le generazioni, nonostante alcune possano essere più attive ed altre meno, e attraverso le varie forme con cui si resiste.
Siamo sempre lì, e sempre lì rimarremo, con i nostri nonni, i nostri genitori, che hanno vissuto tutte le fasi della resistenza, facendone parte loro stessi. Di tempo ne è passato molto e a volte sembra mancare l’energia. Mio padre ad esempio ha vissuto la guerra del 1967, del 1973, l’espansione delle colonie, la prima e la seconda Intifada, Oslo: è normale che abbia perso le speranze e che sia preoccupato per noi più giovani che portiamo avanti delle azioni di resistenza. La stessa cosa è successa con me, quando durante le Intifada sono stato arrestato diverse volte, e lui mi rimproverava sempre. Ma io continuo a credere che bisogna fare sempre qualcosa, prima che loro (gli israeliani) la facciano a te.
Voglio raccontarvi un piccolo aneddoto. Quando abbiamo avviato le azioni di resistenza nonviolenta c’era un ragazzo che voleva partecipare, ma suo padre non voleva, e quindi non veniva mai alle manifestazioni. E’ andata così per due anni. Un giorno l’esercito fa irruzione a Bil’in, sfondano la porta della loro casa e arrestano il ragazzo, che non aveva mai fatto nulla e non aveva alcun ruolo all’interno della resistenza.
In quella scena si vede un po’ tutto questo: i nostri genitori hanno paura per noi, e quindi reagiscono in modo naturale di fronte a un esercito che ti viene a cercare a casa, mossi dalla preoccupazione per i loro figli. Secondo me quella scena restituisce un momento di grande energia.
La videocamera è sempre con te, anche se attraverso il telefono. Cosa rappresenta per te?
E’ al tempo stesso un’amica e un’arma. Bastano queste due parole per rispondere alla domanda. Avete visto in questi giorni quanto è importante per me avere una videocamera. E’ grazie a lei che ho deciso di reagire anche se stavano usando violenza contro di me. Con lei riesco a controllare la rabbia che ho dentro, perché sono concentrato su ciò che sto facendo, cosa è importante filmare e in che modo.
Durante il film dico di sentirmi al sicuro mentre filmo. Ecco, è vero, ma è una sicurezza solo interiore, perché fuori, mentre riprendevo quelle scene, non c’era niente di sicuro. Le persone attorno a me sentivano tutto fuorché sicurezza.
Domanda che ti avranno posto tante volte: come hai reagito alla candidatura di “Five Broken Cameras” agli Oscar?
Ero a casa, guardavo le notizie e a casa l’abbiamo saputo così, reagendo in modo abbastanza normale perché in realtà sapevamo già che sarebbe andata così. Da qualche tempo attraverso diversi contatti ce lo avevano fatto sapere. Ma guardate, di tutta questa storia la cosa più importante è stata essere lì, a Los Angeles, in mezzo a tutti questi grandi attori e registi, che dal vivo sembrano persone normalissime, per rappresentare la Palestina, raccontata attraverso questo film. E che quindi la gente abbia potuto guardare e sentire parlare di Palestina.
L’aspetto però che mi ha fatto più piacere è che per la prima volta una donna ha camminato sul red carpet rosso vestendo un abito tradizionale palestinese. Quella donna era mia moglie ed è stato in assoluto il momento più bello, a cui do più attenzione di tutti.
Colpisce molto la frequenza dell’aggettivo “normale” che ricorre nelle tue parole…
Guardate, tutto diventa normale in un contesto come quello palestinese. E’ questa la realtà che dobbiamo affrontare. L’occupazione è diventata normale, sono diventati normali gli arresti, le uccisioni, i soprusi. E’ un processo di routine. E questa normalità non viene meno anche in casi straordinari come i miei viaggi all’estero, di cui fanno sempre parte le lunghe attese ai controlli di sicurezza e le complesse procedure per far sì che i documenti siano tutti in regola.
Anche nel caso della cerimonia degli Oscar, alla quale ho rischiato di non partecipare. Ero giunto a Los Angeles due settimane prima – per la promozione del film, gli incontri con la stampa, etc. – e tutto sembrava filare liscio. Qualche giorno prima della cerimonia sono tornato in Palestina per prendere mia moglie e mio figlio Jibril, e al ritorno ho avuto seri problemi con la polizia di frontiera statunitense, che non volevano farmi passare. Per fortuna tutto si è risolto con l’intervento del mio amico Michael Moore, e con un po’ di pubblicità in più negli Stati Uniti per Five Broken Cameras grazie a questo episodio. Infatti gli ultimi tre giorni li abbiamo passati in grande fermento, tutti i media ci volevano intervistare, parlavano del film come possibile vincitore. Addirittura mi stavo preparando il discorso nel caso in cui fossi salito sul palco. Anche Jibril stava provando a ripetere qualcosa – sorride, ndr.
Il co-regista del film è l’israeliano Guy Davidi. Avete  altri progetti insieme, o pensi di fare altri lavori in collaborazione con i colleghi israeliani?
Il ruolo di Guy è stato importante per la produzione e il finanziamento del film. Le riprese, il montaggio, le immagini: la maggior parte del lavoro l’ha fatta io. Lui è stato molto disponibile, mi ha aiutato tantissimo nel finire il lavoro. Gli ho chiesto di essere mio partner e lui ha accettato volentieri. L’importante era fare il film, quella dei credits è una questione di poco conto. Insieme abbiamo deciso che questo non sarebbe stato presentato come un frutto della cooperazione tra israeliani e palestinesi, bensì come una storia prettamente palestinese. I media israeliani hanno provato, soprattutto quando c’è stata la candidatura all’Oscar, ha parlare del film come un’opera israeliana. E Guy ha fatto davvero un gran lavoro per far sì che invece rimanesse palestinese. Questo è un altro esempio di come la cooperazione tra noi due sia andata bene, ma non so se continueremo a lavorare insieme.
Il film è stato mai mostrato nelle scuole israeliane?
Ci abbiamo provato, ma le autorità israeliane non ce lo hanno permesso. Ci tengo a dire che la collaborazione tra israeliani e palestinesi è anche questa una cosa normale. Ma qui il senso non ha a che fare con la routine e non è un aspetto negativo. Normale in questo caso significa umano, come umane sono le relazioni che abbiamo ogni giorno.
Altri progetti futuri personali?
L’idea è quella di creare una scuola di cinema e teatro a Bil’in per i giovani. In piccolo sto già insegnando quest’arte ai miei figli, per me è molto importante, ma vorrei allargare la conoscenza di queste capacità anche ad altri bambini e ragazzi. Ovviamente non posso farcela da solo e quindi sto cercando supporto e sostegno, che già ho ricevuto in questi giorni in Italia.

*Oltre alla candidatura agli Oscar, "Five Broken Cameras" ha vinto un Emmy Award, il Sundance Film Festival, il Golden Apricot come miglior documentario allo Yerevan Film Festival e altri singoli premi nazionali. 
*Hanno collaborato Sara Sozzi e Stefano Remuzzi. Si ringraziano tutte le persone che hanno reso possibile questa intervista e il viaggio in Italia di Emad Burnat. La foto pubblicata è di Cecilia Dalla Negra. 
  La straordinaria normalità di essere palestinesi. Incontro con Emad Burnat
06 Aprile 2014
di: 
Stefano Nanni

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