La Palestina raccontata dai palestinesi di Susan Abulhawa

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di Giorgia Grifoni
Roma, 5 aprile 2014, Nena News – Scrivere è lottare. Combattere perché la memoria non si perda, perché la verità rimanga a galla. Perché non cali l’oblio. Scrivere, anche quando non si è scrittori, è necessario: perché scrittori ci si scopre così, all’improvviso. È quello che è successo a Susan Abulhawa, 44 anni, biologa statunitense di origine palestinese: nel 2002 torna nella Palestina che i suoi genitori avevano dovuto lasciare. Che lei stessa aveva lasciato da piccola. Membro di un team di osservatori internazionali, entra nella città di Jenin devastata dall’assedio israeliano in piena seconda Intifada. E non riesce a fermare la penna. Dodici anni e un best seller dopo, Susan non è più una biologa statunitense. È una scrittrice palestinese, degna erede di Ghassan Kanafani e Sahar Khalifah.
Presentato ieri a Roma ai Musei Capitolini in occasione della rassegna “Palestina Raccontata” di Cultura è Libertà, tradotto in 26 lingue e pubblicato in Italia nel 2011, “Ogni mattina a Jenin” è un punto di svolta nella letteratura palestinese: ora, con relativa facilità, gran parte del mondo può accedere a una storia che il più delle volte rimane nascosta, sommersa dal punto di vista dell’ “altro” e distorta da ragioni politiche e rivendicazioni morali. “Quella dei palestinesi sta diventando una storia comune difficile da raccontare – sostiene Gianluca Peciola, vicepresidente della commissione consiliare cultura al Comune di Roma, durante la conferenza in Campidoglio che ha per protagonista proprio Abulhawa – vista la costruzione dell’immagine pubblica che tuttora si fa di loro”. Il libro, a detta di Biancamaria Scarcia Amoretti, islamista e professore emerito all’università La Sapienza di Roma, ha il merito di descrivere il popolo palestinese “non come quell’entità compatta alla quale siamo abituati, ma come un popolo fatto di contadini, di beduini, di politici. Cioè come un ‘popolo’ nell’accezione giuridica del termine. Cosa che spesso viene tralasciata”.
Memoria, abbandono, esodo, campi profughi, terra perduta. Ci sono tutte le tematiche care alla narrativa palestinese in questo racconto corale, incentrato sulla narrazione degli eventi più importanti della Palestina fatta da quattro generazioni di donne. È scritto in gran parte in prima persona,  scelta che lo colloca perfettamente nella tradizione letteraria palestinese: ma per lei, l’autrice, non è stata una scelta voluta.
“Non sapevo che la prima persona fosse una connotazione della letteratura palestinese – ha spiegato Susan Abulhawa – non ero una scrittrice. Tutto è venuto in modo naturale. Ma l’importanza dello scrivere in prima persona è che diventa un atto politico di espressione”. Tutta la rappresentazione della Palestina, la narrazione del conflitto e dell’altro sono, in realtà, un atto politico. Che però spesso sono prerogativa di altri. “La storia palestinese – continua Abulhawa – è stata raccontata da tutti tranne che dai palestinesi. In parte per la mancanza di accesso, in Occidente, alla narrativa palestinese. Ma soprattutto perché le persone che hanno rubato la Palestina vengono da lì”.
Furto di terra, di lingua, ma anche di storia e di narrativa. “La storia che raccontano gli israeliani – chiarisce Abulhawa – è la storia che l’Europa vuole sentire. È un racconto romantico, di coraggio, che serve a sollevare le loro coscienze e a lavare le loro colpe. Spesso la nostra storia viene raccontata in prima persona da persone che non sono palestinesi: questa è un’altra forma di colonialismo, l’ennesimo furto che abbiamo subito. Ma noi reclamiamo le nostre origini, la nostra storia: persone venute dall’Europa ci hanno negato l’accesso a quello a cui siamo legati storicamente, legalmente, culturalmente e geneticamente. La mia famiglia risiede in questa terra almeno dal 1600 eppure, per molti, un ebreo arrivato qui dall’America ha più diritto di me di vivere nella mia casa. E questo non va dimenticato”.
A chi accusa i palestinesi di terrorismo, di odiare gli ebrei e volerli “distruggere”, Susan Abulhawa risponde con un esempio. “Nel mio villaggio di origine c’è un antico cimitero ebraico. È stato conservato per centinaia di anni, anche quando la comunità ebraica si era estinta. E anche la mia famiglia lo aveva curato, perché la comunità ebraica, nei secoli passati, non era mai stata una minaccia per nessuno. Era, anzi, parte di noi, della nostra cultura, della nostra terra. A Gerusalemme Ovest, invece, c’è il più antico e importante cimitero musulmano esistente in Palestina: è il cimitero di Mamilla. Crociati, mistici, combattenti, uomini religiosi, scienziati e intellettuali: tutti venivano sepolti lì da centinaia di anni. Israele ne ha preso il controllo nel 1948, e due anni dopo ne ha distrutto una parte per farci un parcheggio. Poi, alcuni anni dopo, un’altra parte per farvi passare dei tubi. Poi un altro pezzetto, per far posto al ministero del Commercio. E ora, stanno distruggendo quel che rimane per costruire un Museo della ‘Tolleranza’. Molti ci accusano di aver fatto errori, ma io mi chiedo: bisogna essere dei santi per avere giustizia?”. Nena News
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