Israele: la prigione cambia i bambini intervista a Shira Ayal,

 

Shira Ayal, attivista dell’ong israeliana Hotline for Refugees and Migrants, ha visitato più volte i richiedenti asilo di origine africana in prigione. Riportiamo le sue impressioni sugli effetti del carcere sui minori raccolte nella rubrica “Voices from Prison”.
Soltanto nell’ultimo anno più di 200 i figli in minore età dei richiedenti asilo detenuti in Israele. Il loro arresto prima della deportazione o a seguito dell’ingresso irregolare è l’attività ordinaria e non l’ultima istanza che le autorità impiegano, come previsto dalla Convezione sui diritti del Fanciullo, di cui Israele è firmataria. Recentemente, una coalizione di organizzazioni per i diritti umani, inclusa Hotline for Refugees and Migrants, ha presentato un piano dettagliato di alternative alla detenzione minorile. Si tratta di soluzioni in cui i bambini vengono coinvolti e non subiscono  un trattamento violento con l’obiettivo è quello di fornire ai minori e alle loro famiglie un’atmosfera in sintonia con i loro bisogni.
Durante la mia ultima visita alla prigione di Giv’On, a Ramla, ho incontrato 4 madri e 5 bambini. T., una richiedente asilo proveniente dall’Etiopia, è in carcere da due anni insieme a suo figlio di 3 anni. G., donna ghanese prigioniera da 7 mesi insieme a sua figlia, che di anni ne ha 2. Anche R. viene dal Ghana, ed è in prigione 18 mesi. Di figli ne ha 2: uno di 6 anni e l’altro di 2. Così come il figlio di P, richiedente asilo nigeriano, in carcere da poco più di un mese.
E’ da un anno e mezzo che vengo in visita alla prigione di Giv’on, per una volta a settimana. Questo è il giorno della settimana in cui oltrepasso i confini del mondo a me familiare, dove la mia vita ha luogo quotidianamente, e mi inoltro in un altro dove tutto è totalmente diverso: la sua routine, le sue leggi, la gente che vi abita. In questo mondo vivono persone senza scelta, essendo la loro vita gestita da burocrati e guardie carcerarie.
Il loro diritto a svilupparsi in quanto essere umani ed aspirare alla realizzazione dei loro sogni e desideri si è estinto dal momento in cui sono stati arrestati, e la speranza che si riapproprieranno di nuovo dei loro diritti diminuisce ogni giorno di più. Questo è un piccolo mondo, circondando da barriere, muri di cemento e porte di acciaio. E’ davvero dura immaginare che in quei luoghi degli esseri umani vi vivono giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno.
Ed è ancor più difficile pensare che dei bambini vi stiano crescendo, e che tutto ciò che loro conoscono accade all’interno dei confini di questo mondo.
La prima donna che ho incontrato è stata P., dalla Nigeria. E’ stata condotta all’incontro con me da sola, ma pochi minuti dopo è arrivato anche suo figlio di 2 anni, accompagnato da una guardia, secondo la quale il bambino stava piangendo e urlando troppo. Le lacrime si sono esaurite quando sua madre lo ha preso in braccio. P. ha presentato richiesta di asilo in Israele, ma stando a quanto dice lei “io sono stata intervistata in seguito alla mia domanda, ma non ho ricevuto alcun visto durante il periodo di attesa e quindi sono stata arrestata proprio per mancanza di documenti”. P. è preoccupata per la crescita di suo figlio in prigione: “i bambini hanno bisogno di andare all’asilo o a scuola. Prima di essere arrestato era all’asilo. Gli mancano i suoi amici e la vita che fuori dalla prigione. Vorrei che le cose cambino. Vorrei essere libera in modo da poter continuare a prendermi cura di mio figlio”.
Dopo ho incontrato T., etiope. Mi ha raccontato che è arrivata in Israele nel 2009, dopo essere fuggita perché faceva di un gruppo all’opposizione del regime, che reprime duramente questo tipo di attivismo. T. è stata ricevuta dagli impiegati del Ministero degli Interni, i quali hanno respinto la sua richiesta di asilo, così come è capitato al 99,85% dei casi esaminati da loro. Il tasso di riconoscimento dei rifugiati di Israele è dello 0,15%.
T. mi ha descritto la reazione dei funzionari del Ministero di fronte alla sua richiesta: “Mi hanno detto che sono una bugiarda perché non c’è alcuna guerra in Etiopia. Lo so che ora c’è una situazione di pace, ma per me è molto pericoloso tornare perché ero attiva in un’organizzazione anti-governativa. Molti dei miei colleghi sono stati uccisi, per questo io ho molta paura”.

Paura di finire in prigione, di essere torturata o uccisa, a causa della quale T. ha rifiutato di tornare nel suo paese, anche se questo significa rimanere in carcere in Israele a tempo indefinito. “Sono qui da quasi due anni”, mi ha detto, “e mio figlio è qui da quando aveva un anno. E’ nato in Israele e non ha mai avuto la possibilità di andare all’asilo. E’ cresciuto in prigione. Qui, dove non ci sono né scuole né asili.” T. mi ha descritto come la detenzione stia nuocendo a suo figlio: “Piange di continuo. Di notte lui vorrebbe uscire dalla cella, ma le porte sono chiuse. E a volte rimangono così anche quando dovrebbero rimanere aperte, soprattutto per quelle donne che vengono considerate “causa di problemi”.
Poi ho è stata la volta di G., dal Ghana, che in Israele vive da 5 anni. Ma da 8 mesi è in prigione. Spiega che il giudice del tribunale amministrativo di detenzione le ha detto chiaramente: “tornatene nel tuo paese”. Ma lei ha rifiutato: “Se io potessi tornare indietro, sceglierei di stare in prigione? Perché dovrei stare di nuovo in prigione con mia figlia se posso tornare a casa?”. G. mi ha raccontato la sua routine quotidiana in prigione: “Lavoro qui confezionando il caffè, ricevendo 5 NIS (nuovo shekel israeliano) – circa 1,4 dollari – al giorno. Lavoro dalle 8:30 di mattina alle 5 di sera. I bambini di solito stanno con noi mentre lavoriamo.” La vita in prigione, descrive G, è troppo difficile per loro: “sono sempre annoiati. Piangono, urlano. La prigione cambia i bambini. Li rende ansiosi, agitati e sempre stressati.”
Mi ha confidato che a sua figlia, in carcere con lei da quando è arrivata, manca la sua tata. “Una volta mia figlia ha preso il suo zainetto e mi ha detto ‘dai, andiamo da lei’, e poi è scoppiata a piangere.” La bambina non riesce ad abituarsi al carcere: la madre racconta che a volte la piccola parla ad un suo amico dell’asilo, come se lui fosse qui.” Una volta si è avvicinata alle sbarre della cella chiusa e ha iniziato ad urlare: “Dio, apri la porta” Voglio una bamba (uno snack popolare israeliano non disponibile in prigione)!”
Dal Ghana viene anche R., che ha intrapreso il viaggio verso Israele 8 anni fa, ma da 18 mesi si trova in prigione con i suoi bambini. R. ha ripercorso con me i momenti del loro arresto: “siamo stati arrestati il 18 luglio 2012. Hanno fatto irruzione in casa alle 5 del mattino e hanno portato via i miei figli che piangevano in modo isterico. Il più piccolo aveva solo 6 mesi. Ci hanno portato direttamente a Sharonim – prigione a sud di Israele, riservata esclusivamente ai migranti – e dopo due mesi ci hanno trasferito qui a Giv’on..
All’epoca dell’arresto il figlio maggiore di R. andava all’asilo. In prigione, oltre a non esserci strutture educative, suo figlio non ha neanche amici, perché è il più grande tra i bambini detenuti. La madre dice che lui “vuole sempre andare a scuola, vuole imparare”. Il carcere sta ostacolando la sua crescita: “Non ci sono giochi per la sua età, né libri né qualunque altra cosa che possa stimolarlo a imparare cose nuove. Non ha niente da fare 24 ore su 24, non c’è un’ora al giorno in cui è impiegato a fare qualcosa.
Di Shira Ayal, Hotline for Refugees and Migrants – traduzione a cura di Stefano Nanni
25 Marzo 2014
di: 
Stefano Nanni
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