I Freedom Riders in giro per la Palestina

 The Freedom Theatre, Jenin refugee camp 12 January 2007  The Fre

Di Mark Levine
13 aprile 2014
Cinquecento pacchetti di L&M.
Per quanto potevo saperne, quello era il numero di pacchetti di sigarette, tutti della stessa marca, che giacevano sparsi come un’istallazione d’arte  distopica  sul  letto    al di sopra di quello di Zakaria Zbaidi nell’ala della prigione dell’Accademia di polizia dell’Autorità Palestinese a Ramallah.
Era pratico della  prigione: quando ha compito 20 anni era stato  già colpito con armi da fuoco dalle forze israeliane, aveva già passato oltre 5 anni in una prigione israeliana, ed era uno dei combattenti più ricercati  della Cisgiordania. Poi, nel 2006, gli Israeliani hanno acconsentito a concedere l’amnistia a Zbaidi insieme ad altri membri della brigata in cambio della promessa di smettere ogni  tipo di opposizione violenta. Zbaidi era stato precedentemente trasformato da combattente militante in guerriero impegnato culturalmente come cofondatore del Teatro della Libertà a Jenin, un gruppo di artisti che hanno organizzato i viaggi del  Freedom Bus (autobus della libertà),  un teatro itinerante.
Ispirato dai Viaggi per la libertà degli anni ’60 che percorrevano il sud  degli Stati Uniti per evidenziare e opporsi al razzismo ancora penetrante dell’era delle leggi Jim Crow,* la versione palestinese va avanti da tre anni e porta molti attivisti dalla Palestina, dagli Stati Uniti e dall’Europa a passare due settimane viaggiando attraverso la Cisgiordania, particolarmente in zone dove Israele continua ad espropriare la terra e/o le risorse.
Oltre  un terzo dei partecipanti sono stati degli ebrei, alcuni di loro esperti dei viaggi organizzati dall’agenzia Taglit Birthright (finanziata dal governo israeliano e da privati, n-d.t.) che avevano portato centinaia di migliaia di giovani ebrei a Israele per “scoprire” la loro eredità in un modo che incoraggia l’appoggio alle attuali politiche israeliane.
Spinta verso la pace fallita
Pochi giorni lungo il percorso e diventa abbondantemente chiaro perché l’ultima fase di negoziati condotti dal Segretario di Stato americano John Kerry non hanno mai avuto una possibilità. In effetti, anche per un viaggiatore esperto in Palestina, l’esperienza del Freedom Bus può essere ugualmente scioccante ed esaltante. Di giorno si osservano le complesse strategie per mezzo delle quali il governo israeliano, le forze armate e i coloni continuano a rubare la terra ai palestinesi o a impedire che accedano a questa, all’acqua e alle altre risorse. Di sera, davanti a pasti semplici si imparano le miriadi di modi in cui Israele continua a soffocare la vita economica delle comunità che controlla.
Nella Valle del Giordano, nelle comunità come al-Hadidiya, al-Jiftlik e Khirbet Samra, che ho visitato quest’anno, le forze di occupazione israeliane impediscono regolarmente la costruzione di scuole, l’accesso ai terreni agricoli, e la fornitura  di acqua ed elettricità. I residenti che “illegalmente” aggiungono o costruiscono nuove strutture, quasi invariabilmente ricevono ordini di demolizione. Nessuno si è sorpreso quando all’autobus è andata incontro una pattuglia dell’esercito inviata a impedire che i viaggiatori versassero il  cemento per il pavimento di una scuola non appena il bus arrivava a Khirbet Samra. In questo caso, i soldati erano così concentrati a impedire che gli studenti del Freedom Theatre che dovevano recitare raggiungessero la scuola, che i passeggeri del Freedom Bus sono riusciti a intrufolarsi dentro e a mettere il pavimento.
I dettagli dell’occupazione sono ancora più spaventosi delle realtà più eclatanti. Per citare un esempio, a Jiftik, il villaggio più grosso nella Valle del Giordano (che ha ottenuto l’accesso all’elettricità soltanto pochi anni fa), ai residenti viene proibito di scavare pozzi più profondi di 80m. mentre ai coloni è permesso scavarli 10 o perfino 20 volte più profondi. Come conseguenza di queste politiche a lungo termine, la fornitura locale di acqua è diventata così salmastra che non può essere usata per la maggior parte delle coltivazioni.
Sulla terra che coltivano, ai palestinesi si impedisce regolarmente di usare i fertilizzanti o i pesticidi più moderni. “Questo porta avere raccolti miseri,” mi ha spiegato un attivista. “Poi gli israeliani paragonano i nostri raccolti ai loro che sono ben irrigati, concimati, per far vedere come sono moderni.” Anche i raccolti che vanno bene spesso affrontano ostacoli insormontabili per raggiungere un mercato, dato che le aziende israeliane stabiliscono monopoli per la peparazione di prodotti, come i datteri locali (ai palestinesi è proibito possedere i macchinari che permetterebbe loro di prepararli da soli) o le angurie e poi importano prodotti più economici dall’estero, di fatto distruggendo l’industria locale.
La situazione è analoga nella regione delle colline di Hebron nella Cisgiordania meridionale. Soltanto nei pochi giorni del nostro soggiorno nel villaggio di Atwani, i coloni hanno attaccato due volte dei bambini durante il tragitto verso la scuola, con delle fionde, un uliveto è stato sradicato, dei pastori sono stati molestati, un operaio palestinese è morto dopo essere caduto mentre veniva inseguito dalla polizia israeliana, e i coloni hanno distrutto i pannelli solari forniti a villaggi privi di  elettricità da una ONG israeliana.
Nella Cisgiordania centrale e settentrionale, Israele ha espropriato gran parte della migliore terra per l’agricoltura per  insediamenti come quelli di Ma’om, situato proprio a pochi metri da Atwani. Israele, è una notizia abituale, ha soltanto di recente permesso al villaggio di avere acqua ed elettricità; la loro fornitura è ancora scarsa e costosa. E Atwani è relativamente fortunato. Molte comunità circostanti più piccole restano ignote e viene loro proibito di collegarsi alla rete elettrica o alle linee d’acqua, o di costruire strutture comunitarie, come moschee o scuole.
Se si considera oppure no che la Cisgiordania sia territorio occupato o territorio sovrano israeliano, è irrilevante. Le azioni delle quali siamo stati testimoni non sono soltanto illegali, sono crimini di guerra. Eseguite insieme e ripetutamente costituiscono crimini contro l’umanità.
Quando si aggiungono la violenza di routine ancora maggiore, impiegata da Israele in altre comunità in prima linea come Nebi Saleh e Bil’in, dove le proteste del venerdì sono diventate un rituale con gas lacrimogeni, pallottole di gomma e di acciaio, granate stordenti, munizioni vere, e morti abituali di palestinesi, è difficile dissentire dalla caratterizzazione fatta dal sociologo israeliano pionieristico Baruch Kimmerling dell’intero apparato o matrice di controllo che definisce “politicidio”.
L’arte in vantaggio
Se il Freedom Bus servisse soltanto ad evidenziare la brutalità dell’occupazione, sarebbe difficile rimanerci sopra per più di pochi giorni. Ciò che rende il tempo che si passa sul bus tanto stimolante quanto causa di rabbia, è la centralità dell’arte dei viaggi e l’opposizione condivisa e la solidarietà che mira a rafforzare. Come ha spiegato il cofondatore del Freedom Bus durante un seminario  del Playback Theatre che dirigeva: “ L’inclusione di teatro, musica e canzoni ci collega alle forze creative che sostengono un popolo e le sue lotte.”
Più che soltanto “mettere il problema della Palestina nel suo contesto in quanto tragedia umana”, come si è espresso il romanziere Elias Khoury, le abituali  visite in Palestina di attivisti favoriscono relazioni a lungo termine, un impegno condiviso per la lotta popolare, e la possibilità di educare una larga parte della comunità.
Come ha spiegato un partecipante al viaggio dell’anno scorso: “Anche no abbiamo la necessità di sapere che cosa accade in altre parti della Palestina. Non affrontiamo tutti la stessa realtà nello stesso tempo.” Le molto storie uniche condivise attraverso varie forme di teatro e di altre produzioni artistiche durante il viaggio non soltanto offrono potenti contro-narrazioni ai dettagli della narrazione, ma anche l’inclusione di sempre più numerosi attivisti israeliani e internazionali, sta gettando le basi per i tipi di più ampie identità che saranno al centro di qualsiasi soluzione per il conflitto del dopo Oslo.
Un attivista che viene dalle colline di Hebron ha riassunto nel modo migliore la creazione culturale come opposizione che è stata sperimentata lungo l’itinerario come incoraggiamento a un’evasione mentale e fondamentalmente politica dai molteplici strati di occupazione – Israele, l’Autorità Palestinese, Hamas, gli Stati Uniti, il Fondo Monetario Internazionale, e altri regimi di controllo oppressivo in cui sono costretti a vivere.
“Tutti questi livelli [di occupazione] sono intrecciati insieme formando una corda che è molto più forte che ogni singolo filo da solo. L’arte    la corda e ci dà una possibilità, anche se all’inizio soltanto nelle nostre menti, per scappare e immaginare nuove possibilità.”
*http://it.wikipedia.org/wiki/Leggi_Jim_Crow
Mark Levine è professore di Storia del Medio Oriente all’Università della California, sede di Irvine, e Distinguished Visiting Professor all’Università di Lund. Il suo nuovo libro è:  One Land, Two States: Israel and Palestine as Parallel States [Una terra, due stati: Israele e Palestina come stati paralleli], edito insieme all’ambasciatore Mathias Mossberg.
Nella foto: prove al Freedom Theatre di Jenin
Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo
www.znetitaly.org
Fonte: http://zcomm.org/znet/article/freedom-riders-on-the-move-in-palestine
Originale: Aljazeera
Traduzione di Maria Chiara Starace
Traduzione © 2014 ZNET Italy – Licenza

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