Riconoscere la vera ipocrisia. la Siria non è la Palestina di Jonathan Cook

 Z Net Italy

Di Jonathan Cook
26 novembre 2013
Come succede nel caso di  coloro che esprimono un punto di vista nel dibattito in corso sulla assennatezza di dare il via ancora a un altro “intervento umanitario” in Siria, mi sono trovato sotto attacco da parte di quelli che chiedono altra guerra. L’accusa contro di me e molti come me, è quella di ipocrisia.
Dove sono, quindi, i miei doppi criteri? Mi sono coerentemente opposto a tutti i tentativi occidentali di interferire militarmente in Medio Oriente nello scorso decennio. Ho sostenuto che tutti gli stati del Medio Oriente, compresa la Siria, sono considerati dai governi occidentali semplicemente come pezzi degli scacchi in un grande gioco che si chiama la battaglia per il petrolio. Ma i critici vogliono usare un bastone diverso per picchiare me e gli altri che si oppongono al loro fervore per l’intervento. Ecco come Louis Proyect, un irriducibile interventista che ha un blog che ha il titolo “Il marxista impenitente”, formula l’accusa:
“Con il suo impegno di lunga data per la causa palestinese, [Cook] sembra avere difficoltà a comprendere che quelli sotto attacco a Homs o ad Aleppo hanno molto in comune con quelli che vivono a Gaza. Mentre, è, ovviamente, abbastanza esperto per comprendere e comunicare la difficile situazione di un gruppo di arabi, un altro gruppo riceve breve attenzione perché viene percepito come nocivo per gli interessi della pace.”
In altre parole, io e molti altri sostenitori della causa palestinese non siamo stati coerenti perché neghiamo alla Siria l’appoggio che desideriamo sia esteso alla popolazione di Gaza. Questo è un argomento che sento usate con crescente frequenza dagli interventisti, nello sforzo di reclutare per la loro causa i grandi numeri di persone che appoggiano i diritti dei palestinesi riguardo a decenni di occupazione e di oppressione.
La Siria e Gaza, non sono, però, simili su molti livelli, e rendono quindi il paragone profondamente inutile. E nella misura in cui ci possano essere analogie nelle loro situazioni, in realtà io mantengo una posizione coerente che differisce notevolmente da quella degli interventisti.
Per rima cosa, Gaza non è come la Siria  perché i palestinesi vivono in uno stato di occupazione aggressiva, non in uno stato unificato, anche se in via di fallimento e governato da un dittatore. Ci sono pochissime occupazioni che durano anni, ma ci sono un sacco di dittatori senza i quali il mondo starebbe meglio.
Le occupazioni sono regolate dalla legge internazionale, che nel caso di Gaza è quasi del tutto ignorata, mentre degli stati hanno il lusso di essere in gran parte limitati da tale responsabilità all’interno delle loro sfere nazionali. La legge internazionale esiste per lo più per regolare le relazioni tra stati, non che cosa accade al loro interno. Potrei augurarmi che fosse altrimenti, ma devo vivere con la realtà che questo è l’attuale ordine mondiale, e che queste leggi esistono precisamente per impedire che stati potenti per motivi o falsi o egoistici, distruggano stati più piccoli.
Il paragone con Gaza è inutile anche perché possibile essere a favore di tentativi esterni che rimuovano l’occupazione a Gaza, senza che ci si richieda anche di essere a favore di tentativi esterni per rovesciare l’apparato statale in Siria. Fare la prima cosa potrebbe portare – potenzialmente – alla liberazione;  fare la seconda, produce, inevitabilmente, il caos, come abbiamo visto in Iraq e in Libia.
I palestinesi di Gaza, della Cisgiordania, e di Gerusalemme, hanno bisogno di aiuto per liberarsi dal dominio di uno stato straniero aggressivo, in cui loro non hanno  alcuna partecipazione  o voce. I siriani – se la Siria deve sopravvivere e non finire col diventare una serie di cantoni etnici in lotta tra di loro – hanno necessità di trovare una causa comune, una senso di status di nazione autonoma su cui essere d’accordo. A proposito, quella era la strada lunga e dolorosa che l’Egitto stava appena per iniziare a percorrere quando le forze armate egiziane – sostenute da decenni di denaro e di armamenti da parte degli Stati Uniti – hanno deciso di fermarlo.
L’unica cosa che cambia in Siria intervenendo o armando uno dei due lati, è che ognuno sarà in grado di infliggere maggiore spargimento di sangue all’altro. I comuni civili stanno morendo da entrambe le parti di una guerra civile in numeri più grandi perché abbiamo alimentato una un industria di battaglie e di morte fornendo alla fazioni fucili e missili.
L’unica speranza per la Siria – riguardo a ciò che resta di uno stato che sta crollando rapidamente – è portare a negoziati quelle disponibili a parlare, per creare un nuovo ordine in Siria. Non sarà la Svezia.
Si deve parlare anche del paradosso che per negoziare con sicurezza, il governo siriano ha bisogno di assicurarsi la forza all’interno del sistema globale di stati-nazioni; avendo  tale forza, però, ha minore interesse a fare concessioni ai ribelli. Questo è un paradosso che è collegato all’attuale ordine mondiale che può anche non piacerci, ma che è l’unico che esista in questo momento.
Quello che implicano i critici come Proyect è che i palestinesi sono essi stessi in una guerra civile e che indubbiamente sarei a favore di un intervento per aiutarli. Di nuovo, le situazioni sono diverse. La guerra civile tra i palestinesi viene alimentata e manipolata da Israele per mantenere i palestinesi  deboli e divisi in modo che l’occupazione possa consolidarsi. Fa parte del noto progetto di insediamento coloniale.
I siriani sono in una guerra civile perché c’è un’aspra competizione tra i gruppi delle varie sette per avere il dominio dell’apparato statale. In breve, non c’è un sufficiente senso di sirianità. Se ci fosse, si sarebbe verificata una delle due situazioni: Assad avrebbe ancora l’appoggio della massa, o i ribelli sarebbero stati in grado di  fare la differenza a suo favore, e  di andare al potere per mezzo di una rivoluzione popolare. Quella rivoluzione sarebbe forse stata cruenta ma anche liberatrice. Invece ci troviamo in uno stato di guerra civile prolungata, che ogni parte considera come un gioco a somma zero.
A esacerbare questo problema c’è lo sfruttamento da parte degli altri stati della attuale relativa debolezza dello stato siriano. Quegli stati, specialmente l’Arabia Saudita, stanno alimentando il conflitto e tentando di distorcerne la natura. Stanno ulteriormente danneggiando il fragile senso di sirianità. Dall’altro lato, l’Iran ed Hezbollah in Libano stanno facendo la loro parte per interferire a favore del governo siriano, sostenendolo con l’appoggio militare.
Questi ultimi fattori puntano a un modo più realistico di interpretare gli eventi in Siria. Questo paese è preso in un gioco di potere, in cui, da una parte  gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita tentano di mantenere deboli l’Iran e la Siria, e l’Iran tenta disperatamente di mantenere il più forti possibile, i pochi alleati che gli restano, nella sua battaglia contro i tentativi di Israele e dell’Occidente di minare la sua integrità sovrana. Ignorare che questa è la struttura principale per comprendere ciò che accade ora in Siria, porta a un’analisi erronea e a soluzioni imperfette.
Quello che è necessario ora in Siria per  diminuire lo spargimento di sangue, è un ridotto intervento occidentale negativo in Siria e un impegno occidentale positivo molto maggiore per l’Iran (certamente molto più positivo del misero  accordo fatto durante il fine settimana).  La migliore speranza di soluzione per la Siria è che  dell’occidente arrivi a un rispettoso accomodamento con l’Iran.
Un ultimo punto sul paragone tra Palestina e Siria. Per quanto ci possa essere una qualche analogia nelle loro rispettive situazioni, certamente io non sono a favore dell’intervento militare occidentale fatto a vantaggio dei palestinesi. Questo non è collegato a ciò che è consentito nella legge internazionale, che, come ho fatto notare in precedenza, tratta in modo diverso queste due situazioni; sto parlando soltanto di quello che personalmente credo abbia più senso.
Non ho mai discusso della possibilità che gli Stati Uniti e l’Europa comincino ad armare i militanti palestinesi con la speranza che i palestinesi possano mettere fine all’occupazione massacrando i coloni e i soldati. Il livello di sostegno militare di cui avrebbero bisogno i palestinesi per sfidare o sconfiggere Israele militarmente, produrrebbe  soltanto un unico risultato: un prolungato bagno di sangue che causerebbe un gran numero di morti sia tra i palestinesi che tra gli israeliani. Qualche cosa di meno che un massiccio appoggio militare ai palestinesi provocherebbe un bagno di sangue specialmente dalla parte palestinese. Non sono a favore di nessuno dei due risultati.
Sarebbe più utile ed etica una drastica riduzione, o, meglio ancora, una fine dell’appoggio militare ad Israele da parte degli Stati uniti e di quello economico da parte del Unione Europea, o almeno vincolare l’appoggio prolungato a concessioni genuine da Israele ai palestinesi. Rendere Israele più vulnerabile in campo militare per i suoi vicini, per esempio, sarebbe un modo efficace di portarlo al tavolo dei negoziati e per costringerlo a fare accordi significativi.
In breve, quindi, io e la maggior parte dei sostenitori dei palestinesi non si augurano nulla di meno per i Siriani di quello che facciamo per i palestinesi.
Un ultimo punto collegato al resto, sul fervore rivoluzionario dei molti sostenitori di un maggiore intervento occidentale in Siria. Le persone che hanno  soprannomi  come “marxista impenitente”, senza dubbio credono in una rivoluzione globale dei lavoratori, ma sono profondamente fuorviati se credono che inizierà o potrà iniziare in Siria.
La vera ipocrisia sta in questi rivoluzionari da poltrona. Ansiosi di fomentare una rivoluzione, la vogliono costruire sulla pelle dei siriani, un popolo che ha poca speranza di liberarsi, in un mondo dove il loro minuscolo stato non è più di una pedina che viene trascinata qua e là su una     scacchiera controllata da altri stati molto più forti. Se i rivoluzionari vogliono davvero influenzare un cambiamento, sarebbero più saggi – e di gran lunga più morali – se si concentrassero sulla rivoluzione necessaria prima di tutto nei loro cortili.

Jonathan Cook ha vinto il Premio Speciale  Martha Gellhorn per il Giornalismo.  I suoi libri più recenti sono: “Israel and the Clash of Civilisations: Iraq, Iran and the Plan to Remake the Middle East” [ Israele e lo scontro di civiltà: Iraq, Iran e il piano per rifare il Medio Oriente] (Pluto Press) Disappearing Palestine: Israel’s Experiments in Human Despair” [La Palestina che scompare:gli esperimenti di Israele di disperazione umana] (Zed Books).  Il suo nuovo sito web è: www.jonathan-cook.net.

Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo
www.znetitaly.org
Fonte: http://www.zcommunications.org/identifying-the-real-hypocrisy-by-jonathan-cook
Originale: Jonathan Cook’s ZSpace Page
Traduzione di Maria Chiara Starace
Traduzione © 2013  ZNET Italy – Licenza Creative Commons  CC  BY – NC-SA  3.0

 Riconoscere la vera ipocrisia

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