Gad Lerner : Da Trockij a Kissinger, se l’ebreo errante va a destra

 Da Trockij a Kissinger, se l’ebreo errante va a destra

Da Trockij a Kissinger, se l’ebreo errante va a destra


Questo articolo è uscito su “La Repubblica”.
Sarebbe bello poter riflettere serenamente sull’attuale presenza ebraica nelle classi dirigenti occidentali, ma questo rimane un terreno minato su cui pochi studiosi osano avventurarsi. Siamo condizionati dalla frequenza con cui sul web vengono tuttora diffuse oscene liste di proscrizione, miranti a dimostrare che gli ebrei occupano posizioni di rilievo nella finanza, nella ricerca scientifica, nell’editoria e nel cinema grazie alla loro presunta “subdola attitudine cospirativa”. Trent’anni fa venne accolta con gelo la ricerca dello storico americano William D. Rubinstein in cui si quantificava la sovrarappresentazione ebraica ai vertici delle professioni intellettuali, dopo che il proletariato ebraico era stato cancellato dal suolo europeo. Gli sopravvivevano delle élites borghesi, finalmente integrate nell’establishment e come tali orientate su posizioni conservatrici.
Ora a occuparsi di questa materia incandescente è uno studioso italiano di formazione marxista, Enzo Traverso, le cui opere sulla Germania nazista e sulla Shoah sono state tradotte in una dozzina di lingue. Il suo è un approccio piuttosto culturale che sociologico: racconta con passione (e non senza rimpianto) il passaggio storico dell’ebraismo in cui si ridimensiona la corrente del pensiero critico, se non addirittura rivoluzionario, da Spinoza a Heine, da Marx a Freud. L’esito descritto da Traverso è l’esaurimento di una felice anomalia, come recita il titolo del libro: “La fine della modernità ebraica. Dalla critica al potere” (Feltrinelli, pagg. 190, euro 19). Nel mondo contemporaneo emergono altri portavoce del pensiero ebraico, legati organicamente alla cultura liberale conservatrice: da Raymond Aron a Leo Strauss, da Saul Bellow a Elie Wiesel.
A simboleggiare il passaggio d’epoca Traverso assume due opposte icone novecentesche: l’ebreo russo Lev Trockij, emblema dell’internazionalismo, e l’ebreo tedesco naturalizzato americano Henry Kissinger, emblema dell’imperialismo statunitense. Naturalmente la prima edizione francese del libro ha già suscitato numerose reazioni stizzite nelle comunità ebraiche. La nascita dello Stato d’Israele, che molti assumono come baluardo dei valori e degli interessi occidentali nel mondo, accende sentimenti forti. Ma sarebbe meglio evitare schieramenti di comodo e seguire il filo del ragionamento.
Gli ebrei nei secoli sono stati, anche loro malgrado, protagonisti di una globalizzazione ante-litteram. Dopo la rivoluzione francese si sono ritrovati al centro della modernità nel commercio, nella mediazione linguistica, nel diritto. Il loro cosmopolitismo ne ha fatto il nemico naturale dei nazionalismi. Dai marrani spagnoli e portoghesi fino alla forzata condizione di apolidi o paria descritta da Hannah Arendt, la loro collocazione è risultata necessariamente eccentrica rispetto agli assetti di sistema. Anche coloro che si distaccavano dalla tradizione religiosa, gli “ebrei non ebrei”, impersonavano una disperata speranza messianica (Franz Kafka, Walter Benjamin) –non importa se letteraria o politica- risultata indomabile dallo stesso razionalismo illuminista.
Tutto questo è venuto meno con la distruzione della presenza ebraica in Europa, con l’emigrazione di massa negli Stati Uniti e con la nascita dello Stato d’Israele?
Anche Traverso riconosce che il passaggio non è così automatico. Una corrente critica persiste e talvolta entra in rotta di collisione col sionismo (si veda in proposito il saggio di Judith Butler “Strade che divergono”, Cortina editore). In Israele non manca chi manifesta fastidio per il “filoebraismo invadente”, definizione di Yitzhak Laor, che contraddistingue la destra occidentale bisognosa di emendarsi dalla colpa del suo trascorso antisemitismo. Ma si tratta indubbiamente di posizioni minoritarie. Più di frequente il messianesimo ebraico è propenso ad assumere Israele come evento provvidenziale di redenzione. Ne scaturisce una nuova “religione civile” che si legittima rivendicando allo Stato ebraico il ruolo (ambiguo) di unico legittimo portavoce delle vittime della Shoah. Così, per la prima volta nella storia, ebrei e estrema destra non sono più incompatibili, essendo venuta meno la barriera dell’antisemitismo. In Francia un ebreo può votare Le Pen, in Italia può simpatizzare per La Russa. Riuniti spesso anche dal sentimento comune dell’islamofobia.
Con una forzatura che non giova all’analisi storica avvincente del libro, gli ultimi due capitoli riguardano il sionismo (Israele come nuovo ghetto?) e la memoria della Shoah trasformata in teologia: questioni spinose che avrebbero meritato una trattazione meno polemica.
Ma resta ineludibile e suggestiva la vicenda delle due traiettorie distinte dell’intellighenzia ebraica, drasticamente riassunte da Traverso come la fine dell’era dell’ebraismo critico e l’inizio dell’era dell’ebraismo d’ordine. Nel mondo contemporaneo le diaspore si sono moltiplicate e il pensiero critico insidia l’occidente attraverso nuove figure intellettuali cosmopolite. Ma non c’è dubbio che la tragedia novecentesca, dopo aver stroncato milioni di vite umane, rischia di sommergere anche il filone prezioso della diversità ebraica, ridotta a etnocentrismo.

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