Netanyahu, la campagna contro l’Iran, e la questione palestinese dimenticata


Mentre l’attenzione araba e internazionale è concentrata sulla sanguinosa crisi siriana e sulle tensioni legate alla questione nucleare iraniana, i tentativi di riavviare il processo di pace israelo-palestinese sono del tutto scomparsi dall’orizzonte degli eventi mediorientali.
Per la prima volta dopo anni, l’incontro fra il presidente americano Obama e il premier israeliano Netanyahu, avvenuto a Washington all’inizio di marzo, non ha avuto al centro dei colloqui lo stallo dei negoziati israelo-palestinesi, bensì la possibilità di un attacco militare all’Iran.
L’arduo processo di riconciliazione palestinese tra Fatah e Hamas non sta dando i risultati che alcuni speravano. Malgrado l’accordo siglato a Doha all’inizio di febbraio, che avrebbe dovuto aprire la strada a un governo transitorio di unità nazionale e poi alle elezioni entro pochi mesi, le diffidenze e le accuse reciproche continuano a dominare il panorama interno palestinese.
Hamas è impegnato in una difficile transizione, segnata dall’abbandono del suo quartier generale a Damasco e dal ridislocamento della sua leadership all’estero in altri paesi arabi – un processo non privo di incognite e di aspre contrapposizioni all’interno del movimento.
In questa situazione di debolezza, i palestinesi non riescono a far sentire la propria voce sul piano internazionale, mentre negli Stati Uniti l’attenzione è focalizzata sulla corsa alle presidenziali del prossimo autunno.
Di ritorno da Washington, il premier israeliano ha così potuto celebrare la vittoria della sua visione secondo la quale non sarebbe il conflitto israelo-palestinese, bensì la questione iraniana, la causa principale dell’instabilità regionale – una visione che, se non in linea di principio, almeno nei fatti sembra aver preso piede a livello internazionale.
Pochi giorni dopo il rientro in patria di Netanyahu, una nuova escalation di bombardamenti israeliani a Gaza, e di rappresaglie palestinesi sotto forma di decine di razzi lanciati verso il sud di Israele, ha suscitato scarsa attenzione a livello internazionale ed arabo.
La novità è che questo nuovo round di violenza, che per certi versi rappresenta ormai una drammatica routine ignorata dal resto del mondo, è stato letto in Israele quasi esclusivamente alla luce di una potenziale guerra contro l’Iran. Il dibattito interno si è concentrato soprattutto sulla risposta dell’ “Iron Dome”, il sistema antimissile che ha fermato una notevole quantità di razzi palestinesi, in quella che molti israeliani hanno considerato come una sorta di prova generale in vista di una possibile rappresaglia missilistica iraniana a un attacco militare da parte di Israele o degli Stati Uniti.
In questo clima, se la Palestina è scomparsa dai media internazionali, Gaza ha addirittura perso la propria identità palestinese agli occhi di molti in Israele: essa è ormai vista come “una base iraniana”, in accordo con la retorica promossa dal primo ministro Netanyahu. E come tale, è semplicemente una pedina in un conflitto più grande, che non ha niente a che vedere con la lotta per il riconoscimento dei diritti del popolo palestinese.
NETANYAHU E LA GUERRA ALL’IRAN
Sebbene Netanyahu sia riuscito a porre l’Iran al centro dei suoi colloqui con Obama, l’incontro con il presidente americano non ha avuto l’esito da lui sperato.
Il governo israeliano ritiene che l’unica garanzia accettabile per prevenire il rischio di un Iran dotato di armi nucleari sia un immediato stop del programma di arricchimento dell’uranio da parte di Teheran. Nel suo discorso di fronte all’AIPAC, la potente lobby filo-israeliana a Washington, Obama ha però dimostrato di vederla diversamente: per lui, la vera linea rossa che l’Iran non deve oltrepassare è la militarizzazione del suo programma nucleare, non l’arricchimento dell’uranio. Di conseguenza, per Obama c’è ancora spazio per la diplomazia, sebbene i preparativi di guerra nel Golfo proseguano.
Ma la partita non è affatto chiusa: quello che Netanyahu non è riuscito a ottenere nel corso del suo viaggio a Washington, potrebbe realizzarlo tramite le pressioni che i falchi del Congresso continueranno a esercitare sulla Casa Bianca.
Nel frattempo, per il premier israeliano è necessario mantenere concentrata l’attenzione internazionale ed americana sulla questione. Sia nel suo discorso all’AIPAC che una volta tornato in Israele, Netanyahu ha continuato a tracciare parallelismi tra l’attuale situazione internazionale e l’Olocausto ebraico nella seconda guerra mondiale, in quella che – anche secondo diversi commentatori israeliani – è una pericolosa e ingiustificata strumentalizzazione della tragedia ebraica (pericolosa perché fomenta paure irrazionali, e ingiustificata perché pone a confronto due realtà oggettivamente imparagonabili).
Secondo il giornalista israeliano Aluf Benn, direttore del quotidiano Haaretz, dopo essere rientrato da Washington Netanyahu si è preoccupato essenzialmente di una cosa: “preparare l’opinione pubblica a una guerra contro l’Iran”.
L’ESCALATION ISRAELIANA A GAZA
E’ in questo contesto che, il 9 marzo, la nuova fiammata di violenza a Gaza è stata scatenata da Israele con l’assassinio “mirato” di Zuhair al-Qaisi, leader dei Comitati di Resistenza Popolare (CRP), la terza milizia per importanza nella Striscia dopo Hamas e la Jihad Islamica. L’assassinio di al-Qaisi ha posto fine a una tregua di cui avevano beneficiato tutti, sia in Israele che a Gaza, e che le fazioni palestinesi avevano rispettato sebbene il blocco economico imposto alla Striscia sia in gran parte ancora in piedi.
Al-Qaisi era certamente un militante, non un civile; ma con quale accusa è stato ucciso? Il quotidiano Haaretz ha affermato che i CRP furono responsabili del sequestro di Gilad Shalit. Dal canto suo, l’esercito israeliano ha affermato che al-Qaisi aveva contribuito a organizzare l’attacco che nell’agosto 2011 aveva colpito Eilat dal Sinai.
In realtà, tempo addietro era emerso che l’operazione di Eilat non era stata compiuta da palestinesi, e non sembrava aver legami con Gaza (dopo che Israele aveva già assassinato Kamal al-Nayrab, ex leader dei CRP, insieme ad altri esponenti del gruppo, proprio con l’accusa di aver organizzato l’attacco).
Ma in ogni caso, i vertici militari israeliani hanno affermato che l’uccisione di al-Qaisi non è stata solo una “misura punitiva”, ma anche “preventiva” poiché “prove segrete” indicavano che al-Qaisi stava pianificando un nuovo attacco terroristico – un’accusa purtroppo non verificabile, visto che le prove “segrete” in mano all’esercito israeliano sono e rimarranno tali.
Come si vede, in assenza di misure minime di trasparenza, simili omicidi extragiudiziali si prestano a qualsiasi interpretazione, e soprattutto si dimostrano una “cura” peggiore del “male” che intendono sradicare: l’uccisione di al-Qaisi ha scatenato una serie di reazioni palestinesi e controreazioni israeliane che, dopo essersi concluse con una fragile tregua mediata dall’Egitto, hanno lasciato sul terreno 26 palestinesi (in gran parte miliziani, ma anche civili, tra cui una donna, un vecchio e due ragazzini di 12 e 15 anni).
Oltre 80 palestinesi sono rimasti feriti, fra cui decine di civili. Sul fronte israeliano sono rimasti feriti quattro o cinque civili, di cui uno in modo grave, ma il lancio di qualcosa come 250 razzi da parte palestinese (soprattutto da parte della Jihad Islamica e dei CRP, ma non di Hamas) ha tenuto sotto scacco circa un milione di israeliani per diversi giorni.
Il basso numero di vittime tra gli israeliani è stato dovuto in gran parte all’impiego dell’ “Iron Dome”, il sistema antimissile israeliano installato negli ultimi anni, che ha dimostrato un’efficacia superiore al 70%.
L’Iron Dome (a cui l’amministrazione Obama ha contribuito con oltre 200 milioni di dollari) si è dimostrato un fattore in grado di cambiare gli equilibri. Questo sistema ha fornito al governo Netanyahu quella che Yaakov Katz sul Jerusalem Post ha definito “manovrabilità diplomatica”, consentendo a Tel Aviv di “modulare” la pressione militare su Gaza senza subirne le conseguenze: se i razzi palestinesi non fossero stati intercettati, e avessero invece provocato vittime israeliane, il premier Netanyahu sarebbe stato sottoposto a un’enorme pressione da parte dell’opinione pubblica, che probabilmente lo avrebbe obbligato a scatenare un’offensiva di terra a Gaza per fermare il lancio di razzi. Le conseguenze sarebbero state esplosive e probabilmente controproducenti per Israele, che si sarebbe attirata la condanna internazionale temporaneamente distogliendo l’attenzione dalla questione iraniana.
Grazie all’Iron Dome, invece, Netanyahu ha potuto scegliere fino a che punto portare avanti l’offensiva aerea su Gaza, senza farsi trascinare in un conflitto aperto.
Il premier israeliano ha così potuto abilmente destreggiarsi tra il sempre più debole fronte progressista e il vigoroso fronte conservatore all’interno di Israele. Il primo (e soprattutto la sua componente pacifista) è stato ulteriormente indebolito dalla reazione palestinese che ha esposto un milione di israeliani a una pioggia di razzi. L’effetto è stato un ricompattamento del fronte interno su posizioni più intransigenti. Il fronte conservatore più interventista, dal canto suo, non ha protestato troppo per il fatto che Netanyahu non ha scatenato una campagna su vasta scala contro Gaza, consapevole che una cosa del genere avrebbe reso più difficile un attacco all’Iran.
E mentre in Israele il dibattito si è concentrato sulla prestazione dell’Iron Dome, vista come un primo banco di prova delle difese antimissile di Israele (che potrebbero doversi confrontare con i missili iraniani, in una guerra che molti israeliani ritengono imminente o comunque difficilmente evitabile), Netanyahu ha potuto lanciare i suoi strali contro Gaza. Egli ha accusato l’Iran di armare, finanziare e addestrare i miliziani della Striscia, i quali agirebbero agli ordini di Teheran, ed ha minacciato di “sradicare la base iraniana” nella piccola enclave palestinese.
PUNIRE HAMAS
A giustificare in parte le accuse di Netanyahu ci ha pensato la Jihad Islamica, che ha risposto all’aggressione israeliana con un lancio di razzi senza precedenti e – tramite uno dei suoi leader militari, che si fa chiamare Abu Ibrahim – ha dichiarato di voler creare un “equilibrio del terrore” con Israele.
Secondo Abu Ibrahim, non è tanto importante “uccidere israeliani”, quanto obbligare “un milione di israeliani a rinchiudersi nei loro rifugi ed a soffrire come soffre il nostro popolo”.
In un’intervista rilasciata all’AFP, egli ha confermato che la Jihad Islamica riceve addestramento da Hezbollah e finanziamenti dall’Iran – ma non armi, perché “non è facile trasportare armi sofisticate a Gaza” attraverso i tunnel (circa il 70% dei razzi sono prodotti artigianalmente a Gaza, secondo Abu Ibrahim).
In ogni caso, al di là delle dichiarazioni bellicose, i razzi della Jihad hanno potuto ben poco contro lo strapotere militare israeliano. Ma è comunque opinione di diversi analisti, anche nel mondo arabo, che Teheran abbia incitato il gruppo a rispondere con un elevato numero di lanci all’attacco israeliano.
Ad essere colto nel mezzo è stato Hamas, che non ha preso parte alla risposta militare palestinese contro Israele, ed anzi si è speso per giungere ad una tregua il più presto possibile.
Hamas non aveva nessun interesse ad impantanarsi in un’escalation militare, nel bel mezzo della delicata fase di transizione che sta attraversando. Dopo aver deciso di schierarsi con la rivolta in Siria, la leadership estera del movimento ha lasciato Damasco, dove era stata ospitata per oltre un decennio, e si è sparpagliata nel mondo arabo: a Doha, al Cairo, a Gaza.
Nel contesto della polarizzazione regionale che si sta creando attorno alla crisi siriana, Hamas ha deciso di schierarsi con la sua “organizzazione madre”, i Fratelli Musulmani. L’abbandono della Siria ha però comportato per il gruppo anche la perdita dei finanziamenti che provenivano dall’Iran, mentre esso continua ad essere responsabile della sopravvivenza di oltre un milione e mezzo di palestinesi a Gaza.
Ma questa trasformazione ha implicato per Hamas una scelta ancor più strategica: quella dell’allontanamento dalla lotta armata in favore della resistenza popolare nonviolenta (una svolta del resto obbligata, in cambio dell’ospitalità concessa ai suoi leader da paesi come l’Egitto e il Qatar, certo non disposti ad essere la retrovia di un movimento armato). Questa svolta, annunciata dal leader del movimento Khaled Meshaal, ha tuttavia creato spaccature nel gruppo, soprattutto fra gli esponenti all’estero e la leadership a Gaza, restia ad accettare il cambiamento.
A ciò si è poi accompagnato il tentativo di riconciliazione con il movimento rivale Fatah, tentativo che tuttavia sembra essersi arenato a causa delle reciproche diffidenze, di insanati rancori, e di un mutuo e incessante scambio di accuse: molti esponenti di Hamas insinuano che il presidente dell’ANP e leader di Fatah, Mahmoud Abbas, esiti a portare avanti la riconciliazione per timore del veto israelo-americano; Fatah risponde rimproverando a Hamas di non voler implementare l’accordo di Doha a causa delle proprie divisioni interne.
Alla luce di questo difficile momento di transizione per Hamas, è opinione di molti che l’attacco israeliano a Gaza, e l’escalation che ne è seguita, siano stati un modo per “punire” il movimento islamico palestinese in un suo momento di particolare debolezza: l’obiettivo di Netanyahu era forse di trascinare il gruppo nello scontro armato in modo da far abortire sul nascere la sua svolta nonviolenta e scongiurare definitivamente l’eventualità di un governo di unità nazionale palestinese, o in alternativa farlo apparire debole e quasi complice di Israele agli occhi dell’opinione pubblica di Gaza, di fronte alla risposta “muscolare” della Jihad Islamica e di altre fazioni che non hanno esitato ad accettare lo scontro.
Secondo altri, alla “punizione” di Hamas potrebbe aver contribuito anche l’Iran. Se dietro l’incitamento rivolto da Teheran alla Jihad Islamica, affinché rispondesse “a tono” all’attacco israeliano, vi era certamente il desiderio iraniano di deviare almeno temporaneamente i riflettori dalla propria questione nucleare, non è da escludere – sostengono costoro – che non vi fosse secondariamente anche l’intento di mettere in imbarazzo Hamas, colpevole di aver abbandonato l’asse siro-iraniano.
LA SOFFERENZA PALESTINESE DIMENTICATA
Resta il fatto che, di fronte a una leadership costituita da due movimenti – Hamas e Fatah – divisi al loro interno ed incapaci di riconciliarsi fra loro, in presenza di un contesto israeliano ed internazionale che sembra ulteriormente scoraggiare i loro inadeguati tentativi di riappacificazione, e di fronte a un processo di pace ormai morto e sepolto nel totale disinteresse della comunità internazionale, il comune cittadino palestinese viene a trovarsi assolutamente non rappresentato e privo di voce, e vede la propria speranza di libertà e indipendenza svanire in un futuro lontano e irraggiungibile.
Nel frattempo, il crollo degli aiuti internazionali e la crisi economica mondiale hanno precipitato l’Autorità Nazionale Palestinese in una grave crisi finanziaria che le impedisce di costruire le agognate istituzioni di uno Stato indipendente ormai rinviato a data da destinarsi.
Il tanto decantato boom economico della Cisgiordania, che fino a due anni fa veniva sbandierato con soddisfazione in Occidente da coloro che volevano promuovere il modello “pacifico” di Mahmoud Abbas contrapponendolo a quello “terroristico” di Hamas, è svanito nel nulla.
Esso si basava sulla “pace economica” promossa da Netanyahu nei Territori occupati – che prevedeva lo sviluppo economico come surrogato di una pace vera tra israeliani e palestinesi. Ma è bastato che Abbas sfidasse Israele e gli Stati Uniti chiedendo il riconoscimento palestinese all’ONU perché Washington cominciasse a bloccare parte dei propri fondi.
Da allora gli aiuti dei paesi donatori si sono progressivamente contratti. Quest’anno l’ANP riceverà 600 milioni di dollari, rispetto al miliardo che ricevette lo scorso anno, ed al miliardo e 800 milioni che ricevette nel 2008.
Questa riduzione, sommata alle restrizioni economiche e di movimento imposte da Israele, ed alla crisi economica mondiale, ha determinato in Cisgiordania una contrazione della crescita, scesa al 5,8% nei primi tre quarti del 2011 rispetto al 7,5% dello stesso periodo del 2010.
L’ANP ha cercato di ovviare ai conseguenti problemi di bilancio tagliando le spese ad aumentando le tasse, ma quest’ultima misura è stata poi abbandonata a causa delle diffuse proteste che ha suscitato nella popolazione palestinese, già tartassata dall’inflazione, dalla diminuzione dei salari e dalla disoccupazione.
Del resto, molti palestinesi hanno amaramente osservato che è impossibile avere un’economia sostenibile e prospera sotto un’occupazione militare.
Mentre i palestinesi devono quotidianamente fare i conti con i posti di blocco e le restrizioni imposte da Tel Aviv, alla fine di febbraio due stazioni televisive palestinesi a Ramallah sono state chiuse nel giro di una notte dalle forze israeliane. Tali stazioni si trovavano in una parte della Cisgiordania che teoricamente dovrebbe essere sotto il pieno ed esclusivo controllo palestinese, ed in cui nonostante ciò le forze israeliane continuano a fare regolarmente incursioni.
Nel frattempo, migliaia di palestinesi continuano a languire nelle carceri israeliane, spesso soggetti a soprusi e ingiustizie. Una di queste è la cosiddetta “detenzione amministrativa”, che permette di tenere palestinesi in stato di arresto fino a sei mesi (ripetutamente rinnovabili) senza una specifica accusa. Khader Adnan, che recentemente ha fatto scalpore per il suo prolungato sciopero della fame che ha messo a rischio la sua vita, rientra fra questi casi di “detenzione amministrativa”.
Altri abusi riguardano la prolungata detenzione in isolamento, l’inadeguata somministrazione di cure mediche, le umiliazioni e le restrizioni a cui sono sottoposti coloro che intendono visitare i loro parenti in carcere.
Vi è poi lo scandalo della detenzione di minori palestinesi, spesso ragazzini tra i 12 e i 15 anni, arrestati nel corso di irruzioni notturne delle forze di sicurezza israeliane nelle loro abitazioni, con la tradizionale accusa di “lanciare pietre” – come ha denunciato un recente rapporto di “Save the Children”.
E nel frattempo, mentre si moltiplicano gli episodi di intolleranza da parte dei coloni israeliani (in particolare nei confronti di luoghi sacri come chiese e moschee),  prosegue inarrestabile l’espansione degli insediamenti.
Un rapporto pubblicato da Peace Now lo scorso gennaio indica che nel 2011 l’attività edilizia nelle colonie in Cisgiordania è aumentata del 20%, soprattutto a Gerusalemme Est, dove l’aumento è il più alto dell’ultimo decennio.
Questa attività, sottolinea il rapporto, contribuisce a “impedire la creazione di uno Stato palestinese accanto a Israele”.
Alla luce di questa situazione insostenibile, si moltiplicano le voci che prevedono nuovi episodi di violenza nei Territori occupati, o lo scoppio di una nuova “Intifada”.
In realtà è impossibile prevedere se e quando scoppierà una nuova sollevazione popolare palestinese, e se essa assumerà la forma di una Intifada, oppure quella di una rivolta contro la delegittimata ANP, sulla falsariga delle sollevazioni verificatesi in altri paesi arabi, o se vi saranno episodi più circoscritti. Ma quel che è certo è che la Palestina prima o poi tornerà sotto i riflettori dell’attenzione internazionale a causa di diritti che sono stati troppo a lungo calpestati.

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