Hanno avuto mezz’ora di tempo per prendere i loro averi. C’erano cuscini, mobili, vestiti gettati ovunque nel tentativo di salvare la maggior quantità di cose possibili. Ma la cucina è rimasta sotto le rovine, così come chissà quante altre cose. Ayman ha una moglie e 5 figli. Da qualche mese viveva nella nuova casa che aveva costruito coi risparmi di una vita. Tre mesi fa l’ordine di demolizione, solo perchè vive in area C, sotto il totale controllo israeliano. E per questo non ha il diritto di costruire. Case illegali, dicono gli israeliani. Sì, illegali secondo le leggi israeliane, ma perchè la legge israeliana è discriminatoria e razzista. Ai coloni viene permesso tutto, di costruire ed espandersi su terra rubata, mentre ai palestinesi vengono negati i diritti umani basilari. L’accesso all’acqua, all’elettricità, il diritto a costruire le proprie infrastrutture.
I soldati proteggevano il bulldozer, con un sorriso furbesco nel volto. Forse pensano che sia tutto un videogioco, che ad abbattere una casa si guadagnino dei punti. Il mio amico Ibrahim è sotto shock, come me. “Ma non sono degli essere umani? Non si rendono conto di quello che stanno facendo?”. Spero per loro che non si rendano conto. Me lo auguro. Ma in realtà non ci credo. Scattano delle foto, a noi, ai volontari internazionali, per poi ricattarci all’aeroporto. Ai palestinesi, per poi poterli arrestare o prendere di mira. Abbiamo il volto coperto, la fotocamera che nasconde i pochi lineamenti visibili. Ma in questi momenti non si ha paura. Si è solo arrabbiati e ci si sente impotenti.
Se ne vanno. Io penso che abbiano finito. Invece, come ci dicono gli abitanti della famiglia, i bulldozer non sono tornati nella base militare. E’ probabile che ci siano nuove demolizioni. Ed in effetti è così. Una casa di metallo, sento il rumore delle sbarre che si spezzano mentre controllo costantemente che i soldati non si avvicinino a noi che facciamo foto e video. “Scappate appena finiscono di demolire” ci consigliano alcuni palestinesi che da lontano, come noi ,osservano – “di solito sequestrano gli apparecchi fotografici”. Impossibile avvicinarsi di più, la zona è stata dichiarata zona militare chiusa. Motivi di sicurezza. Perchè vogliono demolire un casa. Sulla strana del ritorno vediamo un’altra demolizione. Ibrahim è seduto sulle rovine di quella che fino a due ore fa era la sua casa. La moglie, giovanissima, tiene in braccio il suo unico figlio, di soli sette mesi. Ha il volto sconvolto, forse dallo shock non riesce nemmeno a piangere. In silenzio osservo il materasso matrimoniale sotto le rovine, i trucchi aperti, rovesciati per terra. Una spazzola, un pettine, lo smalto color argento. Un armadio con uno specchio sulle ante che amplifica e raddoppia la tragedia. Aperto, vuoto. Loro non hanno nemmeno avuto mezz’ora, nemmeno il tempo di salvare i propri oggetti personali. Stanno cercando i loro averi tra le rovine. Il mio amico Ibrahim ha ragione, non sono umani, non vogliono crederlo.
Non voglio che tutti questo diventi normale per me, non voglio che questa rabbia che provo ora, che questo senso di impotenza e inutilità spariscano. Una volta li provavo anche quando attraversavo i check-point, quando vedevo i lavoratori attendere per ore ai posti di blocco. Ma ora mi sono abituata. E’ così. Ci si abitua. E tutto diventa normale, in questa terra. Anche le demolizioni. Anche le violazioni dei diritti umani.
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