Dopo aver lasciato la Siria, Hamas si allontana gradualmente anche dall’Iran


  Il movimento islamico Hamas sta vivendo una trasformazione strategica senza precedenti, che fra l’altro comprende una revisione delle sue passate alleanze regionali, così come l’intreccio di nuove alleanze, le quali potrebbero alla fine portare alla rottura con un passato durato più di vent’anni. L’inizio di questa trasformazione ha coinciso con la decisione del movimento di schierarsi con la rivoluzione popolare che chiede il cambiamento democratico in Siria, e di voltare le spalle al regime che gli aveva aperto le porte accogliendo i suoi leader negli anni passati. I dirigenti di Hamas all’estero hanno pertanto lasciato Damasco e si sono stabiliti definitivamente in altre capitali arabe.
Khaled Meshaal, capo dell’ufficio politico del movimento, si è recato nella capitale del Qatar, Doha, accompagnato da altri due membri dell’ufficio politico, Mohamed Nasr e Ezzat al-Rishq, mentre il suo vice Moussa Abu Marzouk si è stabilito al Cairo, e Imad el-Alami ha scelto di tornare nel suo luogo di nascita nella Striscia di Gaza.
Questa fase di revisione non si è però limitata alla rottura con il regime siriano e alla decisione di schierarsi con il popolo e la sua rivoluzione contro l’oppressione e le sanguinose soluzioni securitarie che hanno provocato 7.000 vittime fino a questo momento in Siria, ma si sta estendendo anche all’Iran, il paese che ha sostenuto Hamas finanziariamente e moralmente, e la cui capitale Teheran è stata un luogo di periodico pellegrinaggio per i leader del movimento.
La scorsa settimana, due responsabili di Hamas hanno sorpreso la comunità internazionale, prima ancora che quella araba ed islamica, annunciando che il movimento non sarebbe intervenuto in un’eventuale guerra tra l’Iran e Israele, e non avrebbe lanciato i suoi razzi contro gli insediamenti e le città israeliane se una guerra del genere fosse scoppiata. In altre parole, da quello che si è potuto capire dalle dichiarazioni rilasciate a questo proposito da Ahmed Yousef, consigliere del ministero degli esteri del governo di Gaza, e da Salah Bardawil, membro dell’ufficio politico del movimento, in un’eventualità del genere Hamas rimarrebbe neutrale.
Bardawil ha detto con fermezza che il movimento non offrirà il proprio sostegno all’Iran se quest’ultimo sarà colpito da un attacco israeliano o americano volto a distruggere il suo programma nucleare. Nel corso di un’intervista rilasciata al quotidiano britannico Guardian, egli ha affermato che “l’Iran è sciita, mentre i figli del popolo palestinese a Gaza sono seguaci della comunità sunnita”. Dal canto suo, Yousef ci ha tenuto a dire che Hamas non interverrà in una guerra del genere perché il movimento non fa parte di nessun asse militare o politico, e la sua azione si limita al solo territorio palestinese; perciò, la leadership militare di Hamas risponderà solo a un attacco contro la Striscia di Gaza.
Queste dichiarazioni sorprenderanno molti, soprattutto in Iran, per la loro scelta di tempo, accompagnata dalla rivelazione di contatti che hanno avuto luogo fra Mahmoud al-Zahar, l’uomo forte del movimento, e alcuni responsabili dell’amministrazione americana – come ha dichiarato Bardawil nella stessa intervista.
La scelta di tempo è importante, poiché si susseguono in questi giorni le dichiarazioni americane ed israeliane – in particolare, a margine della visita del premier israeliano Netanyahu a Washington e del suo incontro con il presidente Obama – riguardo al fatto che non viene esclusa nessuna opzione militare per distruggere il programma nucleare iraniano.
Certamente le dichiarazioni di Bardawil e Yousef non esprimono posizioni personali, bensì sono espressione di una nuova strategia da parte del movimento. Non ci troviamo, infatti, di fronte a dei lapsus, ma a prese di posizione fatte trapelare deliberatamente per inviare a diversi attori arabi, islamici ed internazionali, un chiaro messaggio riguardo al cambiamento delle alleanze di Hamas.
Hamas non è costretto a rispondere a domande ipotetiche riguardo a un suo intervento a fianco dell’Iran in un’eventuale guerra contro Israele, poiché i più elementari principi della politica vietano a dei responsabili politici di cadere in simili trappole.
 E’ chiaro, invece, che vi è un’intenzione deliberata di ribadire il graduale allontanamento del movimento dall’asse Iran-Siria-Hezbollah in via temporanea o definitiva, ed il suo avvicinamento all’asse degli arabi “moderati” che comprende Stati “sunniti” come l’Arabia Saudita, il Qatar, gli Emirati Arabi Uniti, il Kuwait e l’Egitto, in linea con le posizioni degli islamisti, ed in particolare dei Fratelli Musulmani, che insieme alla corrente salafita ora controllano almeno due terzi del parlamento egiziano.
Hamas è ritornato nel suo bacino naturale, che è quello dei Fratelli Musulmani, e con questo passo ha voluto porre rimedio a un “errore”, rispondendo alle pressioni dell’organizzazione ‘madre’ – la Fratellanza Musulmana – le quali erano cresciute nei mesi successivi allo scoppio delle rivoluzioni della Primavera Araba.
E’ ancora presto per dare giudizi sui futuri orientamenti di Hamas, ma il fatto che Khaled Meshaal abbia parlato di abbracciare la resistenza pacifica e la disobbedienza civile lascia presagire molte cose a questo riguardo, a cui bisogna aggiungere ciò che dicono osservatori vicini al movimento a proposito della profonda armonia tra Hamas e il presidente palestinese Mahmoud Abbas, la quale è emersa chiaramente nelle scorse settimane portando alla firma dell’accordo di Doha.
Editoriale
(Traduzione di Roberto Iannuzzi)

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